Appesa alle bianche pareti c'era l'opera omnia di Ansel Adams, che era mancato solo un paio di mesi prima. C'era naturalmente anche Moonrise, che troneggiava maestosa, e che di lì a poco avrebbe stracciato tutti i record di aggiudicazione alle aste. Avevo fatto il giro della galleria con studiata calma, sapendo che non mi sarebbe ricapitata tanto presto l'occasione di contemplare le stampe originali di un simile mostro sacro. Quando mi sentii sazio, mi avviai, con la gola secca, verso l'addetto del desk, per chiedere se fosse possibile far esaminare un portfolio. Me ne stava venendo meno anche il coraggio, ma ormai che ero lì decisi che bisognava dare un senso all'aver trasportato oltreoceano il massiccio mattone nero che mi scarrozzavo sotto il braccio.
- Certamente, Signore. Deve lasciarcelo 15 giorni, e avrà il nostro parere. Questa è la prassi alla Light Gallery.
- Ma io sono in viaggio turistico, e non mi trattengo tanto a lungo; magari potrei lasciarlo e voi me lo rispedite?
L'idea non piacque troppo al mio gentile interlocutore, che preferì rilanciare:
- Ma lei quando riparte?
- Giovedì
- Allora facciamo così: torni mercoledì e farò in modo che sia tutto fatto.
E fu la rovina dei miei ultimi giorni di vacanza americana, vissuti da quel momento nell'ansia del responso. Oggi, nel 2020, è molto diverso: chiunque può contattare rapidamente chiunque, e sottoporre on-line il proprio lavoro è un gioco da ragazzi. Ma a quei tempi, se volevi sapere cosa pensavano di te i curatori di una galleria di New York, la procedura normale era quella di prendere l'aereo, un taxi, imboccare l'ascensore, e conferire di persona. E quell'insieme, il viaggio, la metropoli, la Fifth, i sontuosi portoni, l'algida accoglienza, non poteva non instillare una crescente tensione nell'allora giovane fotografo italiano.
Il tutto aveva avuto inizio un anno prima, dal soggiorno nel mio paese di alcuni studenti del Rhode Island School of Design, che, in un progetto di scambio culturale, vedeva il primo dei nove mesi che avrebbero trascorso in Italia destinato a un processo di prima integrazione; i ragazzi venivano smistati a varie aree della provincia italiana, ospiti di famiglie che avevano manifestato la propria disponibilità, in genere per la presenza in casa di coetanei con i quali potevano interagire.
Ovviamente, in una piccola comunità quale la nostra, il gruppetto di "americani" creò un certo fermento, e io e altri giovani non facemmo fatica a stringere relazioni di amicizia, alcune delle quali durano tuttora, a distanza di trentasette anni.
Terminato il mese iniziale, gli studenti del RISD si trasferirono tutti a Roma, per il corso di studi vero e proprio; ma neanche quell' allontanamento avrebbe interrotto i contatti, e non mancarono visite in un senso e nell'altro.
Quando si avvicinò l'estate dell'anno successivo, gli americani tornarono a casa, e ci lasciammo con la promessa di rivederci, stavolta negli Stati Uniti.
Fu questa la ragione principale per cui io, Leonardo, e Francesco, decidemmo di dividere le ferie del settembre 1984 tra il New England e la Grande Mela.
La prima settimana la passammo facendo base a Providence; visitammo l'istituto, partecipammo a qualche party, e sostanzialmente condividemmo la vita dei nostri amici. Poi la visita a Boston, la panne del treno con motore diesel che ci inchiodò per ore in mezzo al nulla, gli aquiloni al vento di Cape Cod, e, come in ogni viaggio, tanti altri ricordi che dicono molto a chi li ha vissuti, e poco a chi legge o ascolta. Poi di nuovo un congedo, e rotta verso New York.
Ed eccoci tornati al punto di partenza, con me che mi ritrovo a visitare il Metropolitan, il MOMA, il Withney, l'Empire, la Trump Tower (allora nuova di zecca), e le altre tappe d'obbligo, il tutto con un solo chiodo fisso nel cervello: quale sarebbe stato il responso di mercoledì?
E il giorno fatidico arrivò. Al desk, lo stesso signore della prima volta. Mi feci riconoscere, e si illuminò in un sorriso inaspettato:
-Oh si! Barbara S. mi ha chiesto di farla attendere, le vuole parlare.
Attesi, e Barbara arrivò. Seduto alla scrivania, dal lato opposto alla giovane signora bionda, ebbi la sensazione che le sedie, al 724 della Fifth Avenue, non poggiassero su un pavimento, ma su soffici nuvole.
Parlò qualche minuto, senza pause, e al mio acerbo inglese venne il fiatone per starle dietro.
Elogiò l'originalità del mio lavoro (avevo portato i miei esercizi di fotografia "informale" del tempo), e, dopo un lungo giro di complimenti, si offerse, lasciandomi stupito, di acquistare una selezione di stampe. Ne scelse 20, che le avrei spedito appena rientrato, e per le quali mi compilò seduta stante un assegno, che di fatto mi risarciva del viaggio che stava per concludersi.
Ancora mi emoziono al ricordo. Certamente, quella fu una delle ore più esaltanti della mia vita. Purtroppo, o per fortuna, non diedi molto seguito al filone "artistico" della mia attività, sia per il clima ben diverso che si respirava (e si respira tutt'oggi), in Italia su questo tema, sia soprattutto perché l'Arte è una missione che va vissuta con dedizione totale e a tempo pieno, e mal si concilia con gli impegni quotidiani del mestiere, cui invece ho consacrato, facendo anche di necessità virtù, i decenni che seguirono.
Ho ancora con me il book che portai negli Stati Uniti. E' un po' logoro, come il suo autore, ma ogni tanto mi capita di scioglierne i lacci, e mostrarlo a qualcuno. Oramai lo vedo come fosse l'opera di un estraneo, un giovane uomo che non ha molto in comune con il Sante di oggi, ma che in qualche modo suscita in quest'ultimo ammirazione e anche un po' di invidia.
E non gli dispiacerebbe affatto rincontrarlo.
- Certamente, Signore. Deve lasciarcelo 15 giorni, e avrà il nostro parere. Questa è la prassi alla Light Gallery.
- Ma io sono in viaggio turistico, e non mi trattengo tanto a lungo; magari potrei lasciarlo e voi me lo rispedite?
L'idea non piacque troppo al mio gentile interlocutore, che preferì rilanciare:
- Ma lei quando riparte?
- Giovedì
- Allora facciamo così: torni mercoledì e farò in modo che sia tutto fatto.
E fu la rovina dei miei ultimi giorni di vacanza americana, vissuti da quel momento nell'ansia del responso. Oggi, nel 2020, è molto diverso: chiunque può contattare rapidamente chiunque, e sottoporre on-line il proprio lavoro è un gioco da ragazzi. Ma a quei tempi, se volevi sapere cosa pensavano di te i curatori di una galleria di New York, la procedura normale era quella di prendere l'aereo, un taxi, imboccare l'ascensore, e conferire di persona. E quell'insieme, il viaggio, la metropoli, la Fifth, i sontuosi portoni, l'algida accoglienza, non poteva non instillare una crescente tensione nell'allora giovane fotografo italiano.
Il tutto aveva avuto inizio un anno prima, dal soggiorno nel mio paese di alcuni studenti del Rhode Island School of Design, che, in un progetto di scambio culturale, vedeva il primo dei nove mesi che avrebbero trascorso in Italia destinato a un processo di prima integrazione; i ragazzi venivano smistati a varie aree della provincia italiana, ospiti di famiglie che avevano manifestato la propria disponibilità, in genere per la presenza in casa di coetanei con i quali potevano interagire.
Ovviamente, in una piccola comunità quale la nostra, il gruppetto di "americani" creò un certo fermento, e io e altri giovani non facemmo fatica a stringere relazioni di amicizia, alcune delle quali durano tuttora, a distanza di trentasette anni.
Terminato il mese iniziale, gli studenti del RISD si trasferirono tutti a Roma, per il corso di studi vero e proprio; ma neanche quell' allontanamento avrebbe interrotto i contatti, e non mancarono visite in un senso e nell'altro.
Quando si avvicinò l'estate dell'anno successivo, gli americani tornarono a casa, e ci lasciammo con la promessa di rivederci, stavolta negli Stati Uniti.
Fu questa la ragione principale per cui io, Leonardo, e Francesco, decidemmo di dividere le ferie del settembre 1984 tra il New England e la Grande Mela.
La prima settimana la passammo facendo base a Providence; visitammo l'istituto, partecipammo a qualche party, e sostanzialmente condividemmo la vita dei nostri amici. Poi la visita a Boston, la panne del treno con motore diesel che ci inchiodò per ore in mezzo al nulla, gli aquiloni al vento di Cape Cod, e, come in ogni viaggio, tanti altri ricordi che dicono molto a chi li ha vissuti, e poco a chi legge o ascolta. Poi di nuovo un congedo, e rotta verso New York.
Ed eccoci tornati al punto di partenza, con me che mi ritrovo a visitare il Metropolitan, il MOMA, il Withney, l'Empire, la Trump Tower (allora nuova di zecca), e le altre tappe d'obbligo, il tutto con un solo chiodo fisso nel cervello: quale sarebbe stato il responso di mercoledì?
E il giorno fatidico arrivò. Al desk, lo stesso signore della prima volta. Mi feci riconoscere, e si illuminò in un sorriso inaspettato:
-Oh si! Barbara S. mi ha chiesto di farla attendere, le vuole parlare.
Attesi, e Barbara arrivò. Seduto alla scrivania, dal lato opposto alla giovane signora bionda, ebbi la sensazione che le sedie, al 724 della Fifth Avenue, non poggiassero su un pavimento, ma su soffici nuvole.
Parlò qualche minuto, senza pause, e al mio acerbo inglese venne il fiatone per starle dietro.
Elogiò l'originalità del mio lavoro (avevo portato i miei esercizi di fotografia "informale" del tempo), e, dopo un lungo giro di complimenti, si offerse, lasciandomi stupito, di acquistare una selezione di stampe. Ne scelse 20, che le avrei spedito appena rientrato, e per le quali mi compilò seduta stante un assegno, che di fatto mi risarciva del viaggio che stava per concludersi.
Ancora mi emoziono al ricordo. Certamente, quella fu una delle ore più esaltanti della mia vita. Purtroppo, o per fortuna, non diedi molto seguito al filone "artistico" della mia attività, sia per il clima ben diverso che si respirava (e si respira tutt'oggi), in Italia su questo tema, sia soprattutto perché l'Arte è una missione che va vissuta con dedizione totale e a tempo pieno, e mal si concilia con gli impegni quotidiani del mestiere, cui invece ho consacrato, facendo anche di necessità virtù, i decenni che seguirono.
Ho ancora con me il book che portai negli Stati Uniti. E' un po' logoro, come il suo autore, ma ogni tanto mi capita di scioglierne i lacci, e mostrarlo a qualcuno. Oramai lo vedo come fosse l'opera di un estraneo, un giovane uomo che non ha molto in comune con il Sante di oggi, ma che in qualche modo suscita in quest'ultimo ammirazione e anche un po' di invidia.
E non gli dispiacerebbe affatto rincontrarlo.