«Fermo!», disse.
Stavo per prendere una sigaretta dal pacchetto e portarla alla bocca e mi fermai col pacchetto in una mano e la sigaretta nell’altra.
«Così è magnifica. Deve venire naturalissima, basta che non ti muovi».
«Io non mi muovo», dissi, «ma fa presto».
Alberto guardava dentro la macchina fotografica e trafficava con una mano intorno a un certo ingranaggio.
«Quanti metri saranno?», chiese.
«Quattro metri», dissi.
«Non mi sembrano quattro. Saranno tre al massimo», disse Alberto socchiudendo gli occhi.
«Io dico che non sono meno di quattro», dissi.
«Quattro metri è la mia sala da pranzo», disse Alberto, «c’è un buffet, un bel tavolo grande e una poltrona. Nello spazio che c’è tra me e te non ci sta un buffet, un tavolo grande e una poltrona.
«Non puoi dire», dissi. «Qui siamo all’aria aperta e non si può fare un confronto. Io dico che ci stanno, così a occhio e croce».
«Non ti muovere», disse Alberto.
«Io non mi muovo, ma se tu continui a fare discussioni, dovrò pur cambiare posizione».
Alberto posò la macchina fotografica per terra e con tre lunghissimi passi venne fin sotto il mio naso.
«Hai visto?», disse. «Tre passi, tre metri».
«Hai fatto dei passi lunghi un metro e mezzo», dissi, «i passi devono essere regolari. Guarda. Fermati al mio posto».
Alberto si mise al mio posto e io misurai cinque passi fino alla macchina fotografica.
«Cinque metri», dissi.
«Hai fatto dei passi lunghi cinquanta centimetri», disse Alberto, «questi non possono essere cinque metri. Se fossero cinque metri ci starebbe molto di più di un buffet, di un tavolo e di una poltrona».
Una coppia che aveva finito allora di far colazione all’ombra di un boschetto, venne a vedere.
«Chissà perché vogliono mettere lì sul prato un buffet, un tavolo e una poltrona», disse la ragazza.
«Mah!», disse il giovanotto. «Forse faranno un film».
«Che film è?», chiese poi ad Alberto.
«Non è un film», disse Alberto, «facciamo solo una fotografia. Ma io dico che un buffet, un tavolo e una poltrona in una distanza così non ci stanno».
«Dipende dalla grandezza del mobilio», disse il giovanotto. «Se il tavolo non è molto grande, forse ci stanno».
«Il tavolo è grandissimo», disse Alberto.
«Ma se non devono fare un film, perché vogliono mettere quei mobili sul prato?», chiese la ragazza.
«Non vogliamo mettere i mobili sul prato», disse Alberto, «si stava discutendo sulla distanza. Io dico che di qua a là ci sono tre metri e lui dice che sono più di quattro».
«Anche a me sembrano più di quattro», disse il giovanotto, e con quattro passi venne a fermarsi sotto il mio naso.
«Quattro e venti», disse il giovanotto, «i miei passi sono di un metro e cinque centimetri l’uno, lo so».
«Va bene», sospirò Alberto, «se voi dite che sono quattro metri facciamo pure quattro metri. Se poi la fotografia non riesce la colpa non è mia».
Raccolse la macchina fotografica e la portò davanti alla faccia.
«Ti sei mosso», disse, «adesso non sei più nella posizione di prima».
«Non potevo stare immobile dopo tutto il discutere che abbiamo fatto», dissi.
«Stavi prendendo una sigaretta dal pacchetto», disse Alberto.
Gettai la sigaretta che avevo accesa e ne levai un’altra dal pacchetto.
«Alt, fermo!», disse Alberto. «Non ti muovere».
«Posso passare?», chiese un signore dietro di me.
«Un momento», disse Alberto, «scusi sa? Un momento solo».
«Prego, prego, fate pure», disse il signore scostandosi di un passo.
Alberto guardò dentro la macchina con un occhio solo, trattenendo il fiato, e anche il signore e la coppia di giovani che si era fermata a guardare, trattennero il fiato.
Poi Alberto si mosse.
«Fatta?», chiesi.
«Macché», disse Alberto, «non scatta».
Guardò la macchina sopra e sotto, tirò un paio di levette, schiacciò un bottone e allora accesi la sigaretta e andai a vedere.
A guardarla così la macchina sembrava regolare, ma Alberto disse che il bottoncino non scattava più. Mi feci dare la macchina, la guardai da tutte le parti e premetti il bottoncino. Sentimmo il “tlich” dello scatto.
«Adesso è scattata», dissi.
«È scattata ma a vuoto», disse Alberto, «abbiamo sprecato una fotografia. Perché hai schiacciato il bottone?».
«M’avevi detto che non scattava», dissi, «allora io ho schiacciato».
«Pazienza, faremo una fotografia di meno. Adesso vai al tuo posto».
Tornai al posto di prima, gettai la sigaretta e ne levai un’altra dal pacchetto.
«Ecco, fermo!», gridò Alberto guardando dentro la macchina con un occhio solo.
«Posso passare?», chiese il signore che era tornato al posto di prima, dietro le mie spalle.
«Un momento solo», disse Alberto. «Scusi tanto, sa?».
«Niente, niente, fate pure», disse il signore spostandosi ancora di un passo.
Rimasi fermo un po’ di tempo.
«Allora?», chiesi.
«Porco mondo!», disse Alberto guardando la macchina da tutte le parti. «Non scatta più».
«Non avrai girato la pellicola», dissi, «la macchina non scatta se non giri la pellicola».
«Sono sicuro di averla girata», disse Alberto, «prima era sul sei e adesso è sul sette».
«Può darsi che ti sbagli», dissi.
«Non mi sbaglio», disse Alberto, e agitò la macchina vicino all’orecchio. Poi cominciò a premere bottoni e a tirare levette.
«Non scatta», disse. Schiacciò il bottoncino dell’obiettivo e si sentì il ‘tlich” che avevamo sentito prima.
«È scattata», gridò Alberto fuori di sé, «e l’obiettivo tra puntato verso il cielo».
«Pazienza, un’altra fotografia sprecata», dissi, «adesso gira la pellicola e io torno al mio posto».
Alberto girò la pellicola e ricominciò a guardare dentro la macchina, con un occhio solo.
«Scatta?», chiesi.
«Non potevi star zitto?», gridò Alberto, «mentre scattava ti sei mosso! Abbiamo sprecato un’altra fotografia per colpa tua».
«Che ne so io?», dissi. «Stai lì mezz’ora con la macchina in mano !».
Ripresi la posizione di prima e dissi che ero pronto.
Alberto guardò nella macchina, schiacciò il bottoncino e si sentì nettamente lo scatto mentre il signore che si era stancato di aspettare attraversava il prato passando proprio davanti all’obiettivo della macchina brontolando:
«Un’ora per fare una fotografia, e la gente dovrebbe star lì ferma ad aspettare che facciano i loro comodi!».
«Quello è mezz’ora che si fa fotografare», disse un’altra coppia di giovani mettendo in moto il motor-scooter.
«Non siamo riusciti a fare una sola fotografia ed abbiamo consumato tutta una pellicola», disse Alberto.
«Colpa della tua macchina fotografica. È una trappola», dissi.
«Non è una trappola», disse Alberto offeso. Prese dal portafoglio un pacco di fotografie e cominciò a mostrarmele ad una ad una.
«Permette?», disse il giovanotto che si era fermato a guardare con la ragazza, tendendo una mano. Gli passai le fotografie ad una ad una e lui le passò alla ragazza che le era accanto.
«Stupende», disse, «anch’io ho fatto delle magnifiche fotografie. Guardi».
Prese dal portafoglio un pacchetto di fotografie e cominciò a passarle ad una ad
una.
Ci sedemmo sul prato a guardarle e Alberto si informò sull’apertura dell’obbiettivo, sulla luce e sul tempo, poi parlò dei vari tipi di macchine fotografiche.
Il giovanotto mise la macchina di Alberto sotto la sua giacca per toglierne la pellicola.
«Era montata male», disse poi, «la pellicola si è tutta accartocciata».
Mostrò la pellicola accartocciata e la gettò lontano. Chiuse la macchina e la riconsegnò ad Alberto, poi salutò e se ne andò con la ragazza. Alberto ed io riprendemmo la passeggiata. Ogni tanto Alberto si fermava a guardare nel mirino della macchina fotografica.
«Stupenda!», diceva. «Che inquadratura!».
Schiacciava il bottoncino e si sentiva il “tlich” dello scatto.
«Se nella macchina ci fosse la pellicola, queste sarebbero le più belle fotografie della mia vita», disse.