Oskar Schlemmer: Il balletto triadico
Nel 1995 un importante laboratorio di restauro mi affidò un incarico per un insolito intervento: specialisti abituati a mettere le mani su fondo oro e affreschi, stavolta erano stati ingaggiati per restaurare, e successivamente asportare, un'opera molto più moderna, di scuola Bauhaus; per la precisione, l'artista in questione era Oskar Schlemmer.
L'opera si trovava in una abitazione privata di Stoccarda, e raffigurava la famiglia dei padroni di casa.
Premetto che il mio ruolo nella vicenda che sto per raccontare è abbastanza marginale, essendomi limitato a svolgere un lavoro di routine, ma i retroscena di cui sono stato testimone mi sembrano gustosi e meritevoli di condivisione.
La casa che custodiva lo Schlemmer era destinata alla demolizione. Già questo era abbastanza triste in quanto si trattava di una pregevole e ormai rara testimonianza di architettura civile tedesca del primo Novecento, ma il terreno sulla collina di Vaihingen aveva raggiunto quotazioni tali da far sorvolare facilmente su considerazioni sentimentali, e di lì a poco al posto del bel giardino sarebbe sorto il solito palazzone, a superflua dimostrazione che tutto il mondo è paese.
In questo progetto, lo stop imposto dalla soprintendenza alla demolizione, finché non fosse stato messo in salvo il suo prezioso contenuto, si abbatté come una tegola sui proprietari, che si misero in moto per cercare una soluzione. Un affresco si può staccare, ma una tecnica mista come quella in oggetto (tempera, encausto, colori a olio) doveva essere asportata assieme alla parete sulla quale era nata, o almeno parte di essa. Ma prima di ogni altro intervento, necessitava di restauro e consolidamento.
Come di regola in ogni intervento simile, il primo passo consiste in una puntuale indagine e documentazione fotografica. Per l'occasione mettemmo in campo il menu completo: luce visibile, ultravioletto, telecamera infrarosso, e luce radente. Seguirono analisi chimiche e spettrografiche delle quali fui solo testimone, e con il carniere pieno di rulli 120 da sviluppare, ce ne tornammo a casa. Consegnato il mio materiale, i tecnici del laboratorio ne trassero le dovute conclusioni, elaborarono il progetto, e si trasferirono a Stoccarda per il tempo necessario al restauro.
Un salto temporale che ci porta dall'inverno alla primavera, e ci vede nuovamente a montare lampade e treppiedi per le foto finali. Sorpresa, dal nulla era spuntato un quadrato giallo ocra a fare da sfondo e amalgamare le figure rappresentate nell'opera. Manifestai il mio stupore, e a quel punto venni aggiornato con il racconto che sto per riferire.
Sulla base di alcuni flebili indizi, i miei amici si erano convinti che quella che oggi appariva come una semplice superficie bianca (per di più ripassata a tempera più volte nei decenni trascorsi), doveva essere, al tempo della realizzazione dell'opera, appunto la famosa campitura gialla. Partendo da questa convinzione, con un asso nella manica di cui dirò tra breve, pur consapevoli della fragilità delle prove scientifiche (il cadmio, mi spiegarono, ha la brutta abitudine di decadere rapidamente con la luce, fino a scomparire completamente), ripristinarono il dipinto come in origine.
Si scatenò l'inferno. Un giornale denunciò lo scempio, la soprintendenza scese in campo in assetto di guerra. I restauratori italiani, accreditati di essere i migliori al mondo, stavolta avevano combinato un bel pasticcio. I miei amici lasciarono parlare tutti, poi convocarono una conferenza stampa, e dopo la dovuta dose di suspense, tirarono fuori da sotto il tavolo un libro d'arte degli anni '50, dove l'opera, riprodotta miracolosamente a colori (la maggior parte delle illustrazioni erano in bianco e nero), esibiva inequivocabilmente il quadrato giallo! Ma il libro non era piovuto dal cielo, era saltato fuori, a seguito di intense ricerche, proprio per suffragare un teorema già compiuto, a dimostrazione di quanti livelli di maestria siano necessari per essere i migliori in questo campo.
Ma la lezione non fu sufficiente, perché venni poi a conoscere il triste epilogo: giudicato troppo esoso il preventivo della impresa italiana per l'asportazione del dipinto (che prevedeva un assottigliamento della parete, e l'ingabbiatura della porzione interessata in una struttura metallica appositamente progettata), i committenti ripiegarono su qualche praticone locale, con il risultato che si spaccò tutto, con danni all'opera di cui non sono in grado di precisare l'entità o la sanabilità. E di conseguenza non so nemmeno se poi l'opera sia approdata o meno alla Staatsgalerie che ne aveva rivendicato la prelazione.
L'ultimo ricordo che ho di quella vicenda è il Subasio innevato a maggio inoltrato, dal finestrino dell'aereo che mi portava a Roma, e l'apprensione per la nascita di Elena, già in ritardo sulla tabella di marcia, forse per non farmi il torto di venire al mondo in mia assenza.
L'opera si trovava in una abitazione privata di Stoccarda, e raffigurava la famiglia dei padroni di casa.
Premetto che il mio ruolo nella vicenda che sto per raccontare è abbastanza marginale, essendomi limitato a svolgere un lavoro di routine, ma i retroscena di cui sono stato testimone mi sembrano gustosi e meritevoli di condivisione.
La casa che custodiva lo Schlemmer era destinata alla demolizione. Già questo era abbastanza triste in quanto si trattava di una pregevole e ormai rara testimonianza di architettura civile tedesca del primo Novecento, ma il terreno sulla collina di Vaihingen aveva raggiunto quotazioni tali da far sorvolare facilmente su considerazioni sentimentali, e di lì a poco al posto del bel giardino sarebbe sorto il solito palazzone, a superflua dimostrazione che tutto il mondo è paese.
In questo progetto, lo stop imposto dalla soprintendenza alla demolizione, finché non fosse stato messo in salvo il suo prezioso contenuto, si abbatté come una tegola sui proprietari, che si misero in moto per cercare una soluzione. Un affresco si può staccare, ma una tecnica mista come quella in oggetto (tempera, encausto, colori a olio) doveva essere asportata assieme alla parete sulla quale era nata, o almeno parte di essa. Ma prima di ogni altro intervento, necessitava di restauro e consolidamento.
Come di regola in ogni intervento simile, il primo passo consiste in una puntuale indagine e documentazione fotografica. Per l'occasione mettemmo in campo il menu completo: luce visibile, ultravioletto, telecamera infrarosso, e luce radente. Seguirono analisi chimiche e spettrografiche delle quali fui solo testimone, e con il carniere pieno di rulli 120 da sviluppare, ce ne tornammo a casa. Consegnato il mio materiale, i tecnici del laboratorio ne trassero le dovute conclusioni, elaborarono il progetto, e si trasferirono a Stoccarda per il tempo necessario al restauro.
Un salto temporale che ci porta dall'inverno alla primavera, e ci vede nuovamente a montare lampade e treppiedi per le foto finali. Sorpresa, dal nulla era spuntato un quadrato giallo ocra a fare da sfondo e amalgamare le figure rappresentate nell'opera. Manifestai il mio stupore, e a quel punto venni aggiornato con il racconto che sto per riferire.
Sulla base di alcuni flebili indizi, i miei amici si erano convinti che quella che oggi appariva come una semplice superficie bianca (per di più ripassata a tempera più volte nei decenni trascorsi), doveva essere, al tempo della realizzazione dell'opera, appunto la famosa campitura gialla. Partendo da questa convinzione, con un asso nella manica di cui dirò tra breve, pur consapevoli della fragilità delle prove scientifiche (il cadmio, mi spiegarono, ha la brutta abitudine di decadere rapidamente con la luce, fino a scomparire completamente), ripristinarono il dipinto come in origine.
Si scatenò l'inferno. Un giornale denunciò lo scempio, la soprintendenza scese in campo in assetto di guerra. I restauratori italiani, accreditati di essere i migliori al mondo, stavolta avevano combinato un bel pasticcio. I miei amici lasciarono parlare tutti, poi convocarono una conferenza stampa, e dopo la dovuta dose di suspense, tirarono fuori da sotto il tavolo un libro d'arte degli anni '50, dove l'opera, riprodotta miracolosamente a colori (la maggior parte delle illustrazioni erano in bianco e nero), esibiva inequivocabilmente il quadrato giallo! Ma il libro non era piovuto dal cielo, era saltato fuori, a seguito di intense ricerche, proprio per suffragare un teorema già compiuto, a dimostrazione di quanti livelli di maestria siano necessari per essere i migliori in questo campo.
Ma la lezione non fu sufficiente, perché venni poi a conoscere il triste epilogo: giudicato troppo esoso il preventivo della impresa italiana per l'asportazione del dipinto (che prevedeva un assottigliamento della parete, e l'ingabbiatura della porzione interessata in una struttura metallica appositamente progettata), i committenti ripiegarono su qualche praticone locale, con il risultato che si spaccò tutto, con danni all'opera di cui non sono in grado di precisare l'entità o la sanabilità. E di conseguenza non so nemmeno se poi l'opera sia approdata o meno alla Staatsgalerie che ne aveva rivendicato la prelazione.
L'ultimo ricordo che ho di quella vicenda è il Subasio innevato a maggio inoltrato, dal finestrino dell'aereo che mi portava a Roma, e l'apprensione per la nascita di Elena, già in ritardo sulla tabella di marcia, forse per non farmi il torto di venire al mondo in mia assenza.