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Memorie di un fotografo #1 - Venere in conchiglia

12/26/2019

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Picture

(Foto di G. Tatge)

"La prossima volta che trovo qualcuno a Venere in conchiglia, mentre ha detto che stava a Larario fiorito, lo faccio uscire coi piedi innanzi".
E così dicendo, il custode G. F. toccò la fondina che gli pendeva sul fianco destro.
George trasalì, "Non le permetto di rivolgersi così ai miei collaboratori", ma l'approccio era troppo signorile per intimorire i nostri interlocutori, che anzi alzarono ulteriormente il tono, protestando ancor più apertamente il disagio che il nostro lavoro recava al loro.
Il fatto è che eravamo capitati nel bel mezzo di una feroce contesa che contrapponeva la Soprintendenza Archeologica ai duecento custodi degli Scavi di Pompei, e in un quadro già teso, le nostre continue richieste di operare al di fuori degli orari normali, di stendere cavi elettrici, di aprire lucchetti arrugginiti di cui si erano smarrite le chiavi, erano diventate il pretesto, l'arma di ricatto con cui gli uni fronteggiavano gli altri, a colpi di ostruzionismi, disservizi, lungaggini, e, ora, anche di minacce.
La lettera con cui George fece presente l'episodio alle alte sfere venne da queste stracciata, raccomandando al mittente di fare altrettanto, pena il rischio di ritrovarsi in tribunale con l'accusa di calunnia e decine di testimoni avversi.
Noi invece, quelli che si erano accollati il compito di portare a termine la catalogazione fotografica del sito archeologico più grande del mondo, eravamo quattro gatti: Luciano (che presto mollò), Alessio, e io col mio assistente. George, all'epoca dirigente tecnico dell'Alinari, veniva ogni tanto a sorvegliare l'andamento della travagliata missione, ma poi doveva rientrare a Firenze.
"La prossima volta che trovo qualcuno a Venere in conchiglia..."
"Ci siamo sbagliati, non abbiamo fatto apposta"
"Si ma noi, per uscire di notte dalla guardiola, non abbiamo alcuna indennità! Lo facciamo a nostro rischio e pericolo, e se un delinquente ci ammazza, la nostra famiglia non viene nemmeno risarcita. Così, se io sento un rumore, o vedo una luce dove so che non deve esserci nessuno, prima sparo, poi chiedo chi è"

La Alinari era intervenuta nell'operazione in quanto l'azienda locale che aveva iniziato il lavoro stava procedendo a un passo troppo lento, che non avrebbe consentito il rispetto dei tempi stabiliti.
Iniziò un laborioso processo di affiancamento che ci portò a fare in sei mesi quello che gli altri avevano fatto in due anni. Comprai qualcosa come 300 metri di grosso cavo elettrico che pesava in modo spropositato, e che andava steso all'inizio, e raccolto al termine del lavoro; nuovi illuminatori al tungsteno per le volte in cui scattavamo di notte (scelsi, su consiglio di Luciano, i Lowell Tota-Light), e un set di Flash Bowens Traveller per gli scatti in Daylight. Cercammo un appartamentino in affitto (che si rivelò essere una specie di garage), e presi la specializzazione in aglio olio e peperoncino. Ettore, il ragazzo di Pompei che ci aiutò in tutto quel periodo, ci portava spesso delle mozzarelle ancora calde che scomparivano, sciogliendosi letteralmente in bocca, a tempo di record. 
Avevamo il terrore dei furti, e invece non solo non ci mancò mai nulla, ma vennero addirittura a riportarci del materiale che avevamo dimenticato in giro.
Ogni giorno, al termine del lavoro, Ettore prendeva il materiale scattato e andava a Napoli per farlo sviluppare.
Anche il consorzio che pilotava il tutto, aveva sede a Napoli. Le digitalizzazioni dei nostri scatti (pellicola piana 4x5"per i soggetti più importanti, e 35mm per il resto) occupavano una sala immensa piena di server grandi come frigoriferi. Oggi il tutto starebbe in una pen drive, ma nel 1988 le cose andavano così. Di quel materiale, e dei 40 miliardi di lire che costò, credo che oggi sopravviva solo qualche articolo nel web, come ad esempio questo ...

Ma per me, per noi, che partecipammo alla (nonostante tutto) meravigliosa avventura, rimangono ricordi ed emozioni incancellabili: le camminate sotto la luna sui selciati millenari, i thermos di caffè nel mite inverno del Vesuvio (anche in quelle sporadiche occasioni in cui lo abbiamo visto spolverato di neve), il mistico silenzio che all'ora di chiusura rimpiazzava la caciara dei turisti, il pettirosso che zampettava sui profumati cespugli di eucalipto nella luce rosata del tramonto, i grappoli d'uva lasciati ad avvizzire nelle vigne dei giardini, e, naturalmente, la sfogliatella (rigorosamente riccia) di Scafati, la macedonia a Mergellina e la sontuosa pizza al metro di Giggino 'u zuzzuso  a Vico Equense.


Sante Castignani
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