Per colpa di un paio di piedi storti, ho passato buona parte della mia infanzia e adolescenza nel reparto di ortopedia dell'ospedale di Perugia. In particolare le estati del 74, 75, e 76 sono impresse nella mia memoria, perché ormai avevo rispettivamente 14, 15 e 16 anni, e rappresentarono il punto di arrivo del lungo percorso di cura.
Il nostro racconto ci porta proprio nell'estate del 1974. La mia passione per la fotografia era sbocciata da un paio di anni, ed ero riuscito a procurarmi, tramite un complicato giro di scambi con un amico, una fotocamera un po' più decente della mia prima Diana (che avevo acquistata in gita scolastica, e di cui parlerò magari in un'altra occasione), ed ero molto soddisfatto della nuova Agfa Karat Rapid:
Il nostro racconto ci porta proprio nell'estate del 1974. La mia passione per la fotografia era sbocciata da un paio di anni, ed ero riuscito a procurarmi, tramite un complicato giro di scambi con un amico, una fotocamera un po' più decente della mia prima Diana (che avevo acquistata in gita scolastica, e di cui parlerò magari in un'altra occasione), ed ero molto soddisfatto della nuova Agfa Karat Rapid:
Agfa Karat Rapid - Ph. courtesy John Nuttall, Creative Commons, modified
Ovviamente non era una macchina di fascia alta, ma la qualità non mancava. Poi potevo finalmente disporre di un otturatore con tutti i tempi di scatto, e di una ampia gamma di diaframmi. E l'obiettivo era un ottimo Apotar che mi avrebbe regalato belle soddisfazioni. Più o meno nella stessa epoca, cominciavo a praticare la camera oscura di mio cognato, e il cerchio si chiudeva, in una gioia inimmaginabile. La fotografia a quei tempi era ancora una passione poco diffusa, si passava un po' da matti, ma di certo non c'era il rischio di essere sballottati dalla corrente.
Torniamo alle mie vacanze passate in ospedale. Mentre La Settimana Enigmistica si esauriva in poche ore, le giornate (per non dire delle nottate afose) erano interminabili. Ammazzavo il tempo leggendo, giocando a carte coi compagni di corsia, facevo lunghe e pigre chiacchierate, ascoltavo la radio con l'auricolare, e naturalmente divoravo riviste di fotografia; poi al momento opportuno tiravo fuori la macchina, e cercavo di centellinare i pochi rullini nel raccontare la mia quotidianità. Conservo ancora molti scatti degli amici di quell'epoca, e tutto sommato, come avviene spesso ripensando a periodi pur trascorsi in luoghi poco allegri, sono ricordi piacevoli.
Quando la calura concedeva un po' di tregua, io e mia madre (che non mi abbandonava un minuto) uscivamo a passeggiare per le stradine del Policlinico di Monteluce. Ci spingevamo fino al bar, qualche volta facevamo tappa nella frescura della cappellina, e finivamo il giro consegnandoci invariabilmente alle panchine del giardinetto, spoglio, ma ombreggiato da grandi pini marini.
Quattordici anni. La fotografia non era l'unica passione che stava sbocciando in quel ragazzino dalle gambe ingessate. Immersi nell'odore resinoso di quel quadrato d'erba, nell'ora in cui il sole comincia ad indorare, oramai nell'imminenza della cena (che come si sa negli ospedali viene servita in orari non proprio mondani), il giardinetto si animò, e un'altalena prese a dondolare. Se dovessi tentare di descrivere quello che provai alzando gli occhi dal muretto dove stavo schiacciando i pinoli con un sasso, scivolerei nella più sguaiata letteratura rosa, e sarebbe un esercizio gratuito, trattandosi di situazioni che ciascuno ha sperimentato in proprio. Per i nostri scopi, basti dire che prima di poter stabilire (naturalmente a occhio) tempo, diaframma e distanza dal soggetto, ebbi bisogno di riprendermi un momento. Settata la triade, caricai l'otturatore (operazione manuale anche questa), e, non avendo il coraggio di puntare l'obiettivo in faccia al soggetto, appoggiai la macchina in terra e mirai a casaccio. Poi avrei aggiustato l'inquadratura in camera oscura, come fu.
E tutto questo: l'ospedale, il giardinetto, la noia, la ragazzina, il sole dorato, lo scatto rubato, l'emozione della stampa; tutto questo, decenni dopo, mi è tornato vivido, fragrante, non rappresentato, ma reale, solo ritrovando la vecchia fotografia che pubblico:
Torniamo alle mie vacanze passate in ospedale. Mentre La Settimana Enigmistica si esauriva in poche ore, le giornate (per non dire delle nottate afose) erano interminabili. Ammazzavo il tempo leggendo, giocando a carte coi compagni di corsia, facevo lunghe e pigre chiacchierate, ascoltavo la radio con l'auricolare, e naturalmente divoravo riviste di fotografia; poi al momento opportuno tiravo fuori la macchina, e cercavo di centellinare i pochi rullini nel raccontare la mia quotidianità. Conservo ancora molti scatti degli amici di quell'epoca, e tutto sommato, come avviene spesso ripensando a periodi pur trascorsi in luoghi poco allegri, sono ricordi piacevoli.
Quando la calura concedeva un po' di tregua, io e mia madre (che non mi abbandonava un minuto) uscivamo a passeggiare per le stradine del Policlinico di Monteluce. Ci spingevamo fino al bar, qualche volta facevamo tappa nella frescura della cappellina, e finivamo il giro consegnandoci invariabilmente alle panchine del giardinetto, spoglio, ma ombreggiato da grandi pini marini.
Quattordici anni. La fotografia non era l'unica passione che stava sbocciando in quel ragazzino dalle gambe ingessate. Immersi nell'odore resinoso di quel quadrato d'erba, nell'ora in cui il sole comincia ad indorare, oramai nell'imminenza della cena (che come si sa negli ospedali viene servita in orari non proprio mondani), il giardinetto si animò, e un'altalena prese a dondolare. Se dovessi tentare di descrivere quello che provai alzando gli occhi dal muretto dove stavo schiacciando i pinoli con un sasso, scivolerei nella più sguaiata letteratura rosa, e sarebbe un esercizio gratuito, trattandosi di situazioni che ciascuno ha sperimentato in proprio. Per i nostri scopi, basti dire che prima di poter stabilire (naturalmente a occhio) tempo, diaframma e distanza dal soggetto, ebbi bisogno di riprendermi un momento. Settata la triade, caricai l'otturatore (operazione manuale anche questa), e, non avendo il coraggio di puntare l'obiettivo in faccia al soggetto, appoggiai la macchina in terra e mirai a casaccio. Poi avrei aggiustato l'inquadratura in camera oscura, come fu.
E tutto questo: l'ospedale, il giardinetto, la noia, la ragazzina, il sole dorato, lo scatto rubato, l'emozione della stampa; tutto questo, decenni dopo, mi è tornato vivido, fragrante, non rappresentato, ma reale, solo ritrovando la vecchia fotografia che pubblico:
E una volta di più, mi convinco che la fotografia si nutre di letteratura più che di immagine. E ancora, parafrasando qualcuno, se questo racconto fosse un romanzo, sarebbe forse A' la recherce du temps perdu. La ragazzina dai capelli rossi sarebbe stata la mia Gilberte; il giardinetto, il confine della tenuta degli Swann, e, la fotografia ritrovata in età matura, un dolce pezzetto di Petite Madeleine inzuppato nel tè, o, come sostengono alcuni esegeti, nell'infuso di tiglio (ipotesi questa -mi scuso per la saccente digressione- corroborata da precedenti stesure del romanzo, e a me particolarmente gradita per il contributo, quasi sinestetico, che quel profumo sembra recare alla dolce melassa della memoria).
E io, naturalmente, sarei il vecchio arnese ferito dalla vita, che ripercorre, come sola medicina, il sentiero dei lontani ricordi.
E io, naturalmente, sarei il vecchio arnese ferito dalla vita, che ripercorre, come sola medicina, il sentiero dei lontani ricordi.