1991.
Conclusa con successo l'avventura di Pompei, i miei rapporti con la Fratelli Alinari si erano consolidati, e da un paio di anni aveva avuto inizio quello che probabilmente sarebbe rimasto il più bell'incarico della mia vita: la campagna annuale della SEAT con cui si illustravano le copertine delle guide telefoniche di tutta Italia. Oggi è difficile rendersi conto dell'importanza che potesse rivestire qualche decennio fa l'elenco telefonico, ma chi ha buona memoria ricorderà che nei bar più frequentati il centinaio di volumi che raccoglievano, divisi per provincia, gli abbonati italiani, costituivano una parte significativa dell'arredamento. Quando l 'Alinari stipulò la convenzione con la SEAT, erano già diversi anni che le copertine delle guide, inizialmente semplicemente costellate dai loghi degli inserzionisti, erano diventate il più bel catalogo, oggi si direbbe diffuso, del patrimonio artistico del nostro paese. L'idea era nata da un dirigente della SEAT, un gentleman d'altri tempi che ricorderò sempre con grande piacere, che ebbe l'intuizione di barattare una piccola parte del gettito pubblicitario in cambio di un enorme guadagno in termini comunicativi dello strumento: proponendo ogni anno un gioiello (tendenzialmente poco conosciuto) del patrimonio artistico locale nella prima e quarta di copertina di ciascuna guida, si creò una enorme affezione del pubblico verso un altrimenti sterile e asettico volume. I comuni e le diocesi facevano a gara per assicurarsi la presenza su quelle pagine, per veder rappresentata, in quella che sarebbe stata l'immagine più vista dell'anno, la cattedrale, il museo, il parco archeologico, il castello, la villa, tutti beni che avrebbero ricevuto un enorme ritorno pubblicitario.
In quella complessa operazione nulla era lasciato al caso; una redazione nella sede di Torino si occupava di individuare i siti che sarebbero stati oggetto della campagna, filtrando le richieste o selezionandoli con propria autonomia, e pianificare di conseguenza ogni servizio. Alla fine dell'estate veniva indetta una riunione dove noi tre fotografi incaricati, più il dirigente dell'Alinari, incontravamo i responsabili della SEAT, e, come usavamo scherzare, ci spartivamo l'Italia. A ciascuno di noi toccavano una trentina di copertine, che rappresentavano all'incirca altrettante giornate di lavoro. In genere il servizio fotografico impegnava la sola mattinata o poco più, lasciandomi a seguire molte ore libere per visitare la città in cui mi trovavo. Fu grazie a questo incarico che posso dire di avere una buona conoscenza, avendo avuto per anni l'opportunità di batterla a tappeto, dell'Italia e delle sue meraviglie. Dal punto di vista tecnico il lavoro rappresentava la classica mixed bag: c'erano soggetti poco impegnativi, mentre altri si rivelavano vere e proprie sfide, spesso non previste, e per di più lontani da casa, da affrontare pertanto con quello che si aveva dietro. Quella che sto per raccontare è proprio una di quelle situazioni che mi colsero alla sprovvista, e che mi obbligarono a lavorare di fantasia per risolvere un problema per nulla banale.
1991, dicevo. Ero in Veneto, e come spesso accadeva, avevo raggiunto in serata la città dove avrei operato il giorno successivo, Vicenza nel caso specifico. Il soggetto di turno era il Criptoportico romano, ovvero un portico sotterraneo che costituisce attualmente il piano interrato di un grosso palazzo. La situazione si presentò come segue: una vista di insieme presupponeva di piazzarsi in un angolo con un grandangolare molto spinto (alla fine scattai con una Linhof 6x9 cm equipaggiata di uno Schneider Super Angulon da 47 mm di focale), e inquadrare due pareti che si sviluppavano ad angolo retto per una trentina di metri ciascuna; la larghezza del corridoio era di circa 3 metri, per cui ogni fonte di illuminazione avrebbe generato un forte spot con caduta repentina verso il buio a poca distanza. E così infatti si presentavano tutte le foto esistenti all'epoca: tutto immerso nel buio, salvo alcune chiazze bianche, bruciate, in corrispondenza delle lampade o flash che erano stati utilizzati. L'unica illuminazione presente erano delle lampadine di bassa potenza, di colore rossastro, piazzate all'interno delle nicchie che scandivano regolarmente le pareti, del tutto inutili ai nostri scopi, rappresentando anzi un problema in più, creando un insidioso controluce. Con me avevo illuminatori a sufficienza, e pensai che piazzandone uno ogni 6 o 7 metri avrei potuto ottenere una discreta uniformità di illuminazione, con, diciamo, otto di essi. Andai a cercare il quadro elettrico per vedere se potevamo disporre (ma ne sarei rimasto assai sorpreso) di 8 kilowatt: una volta aperto il piccolo sportello del contatore, non sapevo se mettermi a ridere o piangere: totale della energia elettrica a disposizione: 1,5 KW. Come illuminare 60 metri lineari con 1,5 KW? Oggi mi verrebbero in mente molte soluzioni: merging in postproduzione di una serie di scatti, ciascuno illuminato per una piccola porzione; illuminatori a led, sia a rete che a batteria, eccetera. Ma bisogna tornare al 1991, e ai mezzi che c'erano allora, pellicola in primis, che non consentiva né errori, né possibilità di verifica di quel che era stato fatto fino al momento dello sviluppo. Fu con questo problema da risolvere che andai a mangiare qualcosa prima di ritirarmi in albergo, fiducioso che la notte mi avrebbe portato consiglio.
E così fu. Come succede spesso al cervello quando deve sbrogliare intricate matasse, le sinapsi tennero un consiglio e deliberarono come segue.
Piazzai la fotocamera sul treppiede, e, al buio assoluto, aprii l'otturatore sulla Posa T (otturatore sempre aperto fino a che non si aziona nuovamente lo scatto); avvalendomi di una sola lampada da 1000 Watt tenuta in mano, e di una generosa prolunga, iniziai a percorrere, rasente al muro esterno, i due tratti interessati; giunto in prossimità dell'apparecchio spegnevo, lo oltrepassavo, e completavo l'altra metà. L'operazione è concettualmente semplice, ma la sua difficoltà consiste nel corretto calcolo dell'esposizione, che con la pellicola invertibile che si usava per questi lavori, deve essere perfetta. Il punto è che oltre alla potenza della lampada (facilmente misurabile con l'esposimetro), è importante tenere in considerazione anche la velocità con cui la si fa muovere. In sintesi, ho passato mezza mattinata a percorrere i due corridoi, cercando ogni volta di variare la velocità del mio spostamento. Contavo un tot di secondi ad ogni nicchia, e ogni volta li aumentavo o riducevo.
Avrò macinato cinque o sei rulli in questo modo, prima di passare a fotografare i dettagli, che mi parvero una passeggiata.
L'addetto della SIP che mi accompagnava pensò senz'altro che fossi impazzito, ma quando arrivarono i risultati, ha continuato a segnalarmi per anni le numerose richieste che riceveva per poter utilizzare quelle immagini, che crearono effettivamente un certo scalpore per il fatto di mostrare finalmente nel suo splendore uno dei monumenti più peculiari di quella bella città.
Ed ecco il risultato, tratto dal volume "Immagini dagli elenchi telefonici" 1991, tradizionale strenna della SEAT in un'epoca in cui, oltre che al proprio bilancio, le grandi Imprese pensavano a promuovere Cultura.
Sante Castignani
Conclusa con successo l'avventura di Pompei, i miei rapporti con la Fratelli Alinari si erano consolidati, e da un paio di anni aveva avuto inizio quello che probabilmente sarebbe rimasto il più bell'incarico della mia vita: la campagna annuale della SEAT con cui si illustravano le copertine delle guide telefoniche di tutta Italia. Oggi è difficile rendersi conto dell'importanza che potesse rivestire qualche decennio fa l'elenco telefonico, ma chi ha buona memoria ricorderà che nei bar più frequentati il centinaio di volumi che raccoglievano, divisi per provincia, gli abbonati italiani, costituivano una parte significativa dell'arredamento. Quando l 'Alinari stipulò la convenzione con la SEAT, erano già diversi anni che le copertine delle guide, inizialmente semplicemente costellate dai loghi degli inserzionisti, erano diventate il più bel catalogo, oggi si direbbe diffuso, del patrimonio artistico del nostro paese. L'idea era nata da un dirigente della SEAT, un gentleman d'altri tempi che ricorderò sempre con grande piacere, che ebbe l'intuizione di barattare una piccola parte del gettito pubblicitario in cambio di un enorme guadagno in termini comunicativi dello strumento: proponendo ogni anno un gioiello (tendenzialmente poco conosciuto) del patrimonio artistico locale nella prima e quarta di copertina di ciascuna guida, si creò una enorme affezione del pubblico verso un altrimenti sterile e asettico volume. I comuni e le diocesi facevano a gara per assicurarsi la presenza su quelle pagine, per veder rappresentata, in quella che sarebbe stata l'immagine più vista dell'anno, la cattedrale, il museo, il parco archeologico, il castello, la villa, tutti beni che avrebbero ricevuto un enorme ritorno pubblicitario.
In quella complessa operazione nulla era lasciato al caso; una redazione nella sede di Torino si occupava di individuare i siti che sarebbero stati oggetto della campagna, filtrando le richieste o selezionandoli con propria autonomia, e pianificare di conseguenza ogni servizio. Alla fine dell'estate veniva indetta una riunione dove noi tre fotografi incaricati, più il dirigente dell'Alinari, incontravamo i responsabili della SEAT, e, come usavamo scherzare, ci spartivamo l'Italia. A ciascuno di noi toccavano una trentina di copertine, che rappresentavano all'incirca altrettante giornate di lavoro. In genere il servizio fotografico impegnava la sola mattinata o poco più, lasciandomi a seguire molte ore libere per visitare la città in cui mi trovavo. Fu grazie a questo incarico che posso dire di avere una buona conoscenza, avendo avuto per anni l'opportunità di batterla a tappeto, dell'Italia e delle sue meraviglie. Dal punto di vista tecnico il lavoro rappresentava la classica mixed bag: c'erano soggetti poco impegnativi, mentre altri si rivelavano vere e proprie sfide, spesso non previste, e per di più lontani da casa, da affrontare pertanto con quello che si aveva dietro. Quella che sto per raccontare è proprio una di quelle situazioni che mi colsero alla sprovvista, e che mi obbligarono a lavorare di fantasia per risolvere un problema per nulla banale.
1991, dicevo. Ero in Veneto, e come spesso accadeva, avevo raggiunto in serata la città dove avrei operato il giorno successivo, Vicenza nel caso specifico. Il soggetto di turno era il Criptoportico romano, ovvero un portico sotterraneo che costituisce attualmente il piano interrato di un grosso palazzo. La situazione si presentò come segue: una vista di insieme presupponeva di piazzarsi in un angolo con un grandangolare molto spinto (alla fine scattai con una Linhof 6x9 cm equipaggiata di uno Schneider Super Angulon da 47 mm di focale), e inquadrare due pareti che si sviluppavano ad angolo retto per una trentina di metri ciascuna; la larghezza del corridoio era di circa 3 metri, per cui ogni fonte di illuminazione avrebbe generato un forte spot con caduta repentina verso il buio a poca distanza. E così infatti si presentavano tutte le foto esistenti all'epoca: tutto immerso nel buio, salvo alcune chiazze bianche, bruciate, in corrispondenza delle lampade o flash che erano stati utilizzati. L'unica illuminazione presente erano delle lampadine di bassa potenza, di colore rossastro, piazzate all'interno delle nicchie che scandivano regolarmente le pareti, del tutto inutili ai nostri scopi, rappresentando anzi un problema in più, creando un insidioso controluce. Con me avevo illuminatori a sufficienza, e pensai che piazzandone uno ogni 6 o 7 metri avrei potuto ottenere una discreta uniformità di illuminazione, con, diciamo, otto di essi. Andai a cercare il quadro elettrico per vedere se potevamo disporre (ma ne sarei rimasto assai sorpreso) di 8 kilowatt: una volta aperto il piccolo sportello del contatore, non sapevo se mettermi a ridere o piangere: totale della energia elettrica a disposizione: 1,5 KW. Come illuminare 60 metri lineari con 1,5 KW? Oggi mi verrebbero in mente molte soluzioni: merging in postproduzione di una serie di scatti, ciascuno illuminato per una piccola porzione; illuminatori a led, sia a rete che a batteria, eccetera. Ma bisogna tornare al 1991, e ai mezzi che c'erano allora, pellicola in primis, che non consentiva né errori, né possibilità di verifica di quel che era stato fatto fino al momento dello sviluppo. Fu con questo problema da risolvere che andai a mangiare qualcosa prima di ritirarmi in albergo, fiducioso che la notte mi avrebbe portato consiglio.
E così fu. Come succede spesso al cervello quando deve sbrogliare intricate matasse, le sinapsi tennero un consiglio e deliberarono come segue.
Piazzai la fotocamera sul treppiede, e, al buio assoluto, aprii l'otturatore sulla Posa T (otturatore sempre aperto fino a che non si aziona nuovamente lo scatto); avvalendomi di una sola lampada da 1000 Watt tenuta in mano, e di una generosa prolunga, iniziai a percorrere, rasente al muro esterno, i due tratti interessati; giunto in prossimità dell'apparecchio spegnevo, lo oltrepassavo, e completavo l'altra metà. L'operazione è concettualmente semplice, ma la sua difficoltà consiste nel corretto calcolo dell'esposizione, che con la pellicola invertibile che si usava per questi lavori, deve essere perfetta. Il punto è che oltre alla potenza della lampada (facilmente misurabile con l'esposimetro), è importante tenere in considerazione anche la velocità con cui la si fa muovere. In sintesi, ho passato mezza mattinata a percorrere i due corridoi, cercando ogni volta di variare la velocità del mio spostamento. Contavo un tot di secondi ad ogni nicchia, e ogni volta li aumentavo o riducevo.
Avrò macinato cinque o sei rulli in questo modo, prima di passare a fotografare i dettagli, che mi parvero una passeggiata.
L'addetto della SIP che mi accompagnava pensò senz'altro che fossi impazzito, ma quando arrivarono i risultati, ha continuato a segnalarmi per anni le numerose richieste che riceveva per poter utilizzare quelle immagini, che crearono effettivamente un certo scalpore per il fatto di mostrare finalmente nel suo splendore uno dei monumenti più peculiari di quella bella città.
Ed ecco il risultato, tratto dal volume "Immagini dagli elenchi telefonici" 1991, tradizionale strenna della SEAT in un'epoca in cui, oltre che al proprio bilancio, le grandi Imprese pensavano a promuovere Cultura.
Sante Castignani