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Memorie di un fotografo #2 - L'Ingegnere

1/1/2020

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Foto S. Castignani

L'ingegnere sbuffò, raccolse un pugno di neve dal tettino della propria station wagon, e la spalmò con metodo sulla faccia del collega.

Eravamo partiti la mattina all'alba. La distesa dei borsoni pieni di attrezzatura prendeva metà della banchina della stazione di Foligno. In quella settimana era scesa più neve che in una intera stagione di Fargo. Non solo le strade per le Marche non erano percorribili, ma erano stati sospesi anche molti treni, perché il ghiaccio poteva bloccare gli scambi. A me non sarebbe dispiaciuto attendere una svolta meteorologica, stipare doviziosamente il bagagliaio dell'auto, e sbarcare tranquillamente davanti alla chiesa che dovevo fotografare; ma purtroppo la scadenza del bando di concorso della Soprintendenza delle Marche non era materia negoziabile, così, al primo treno utile, prendemmo armi e bagagli e affrontammo l'avventura che sto per raccontare.

"Gli atti n'en belli" (traduzione: "le premesse non sono incoraggianti"). Così squittiva, ad intervalli regolari, la vocetta fina dell'ingegnere venuto in rappresentanza della società che conduceva la gara. Oltre a lui c'erano due storici dell'arte, un altro tecnico, e naturalmente il narratore di questa storia.
"Gli atti n'en belli", ripeteva l'ingegnere (d'ora in poi lo chiamerò così), mentre osservava dal finestrino la neve che continuava a scendere copiosa. Ma oltre che di sapide metafore, l'ingegnere non tardò a dimostrarsi un virtuoso della favella a tutto tondo, e il suo cicaleccio fu l'unico contatto col mondo che accompagnò il mio sonnecchiare nel viaggio verso Castelbellino.

Arrivati alla stazione di Montecarotto - Castelbellino (accreditata in Wikipedia di un flusso di ben 2400 viaggiatori annui), ci rendemmo conto che il peggio doveva ancora venire. Il paese, arrampicato a quasi 400 m di altezza, distava tre Km di ripida salita. 
E' passato un quarto di secolo da quella giornata, e confesso di non rammentare esattamente quale fu il mezzo di fortuna che ci permise di arrivare a destinazione, ma ho un vago ricordo di una specie di taxi con catene alle ruote che fece due viaggi, ma, ripeto, non ci giurerei, e del resto non è importante ai fini del nostro racconto.
Il lavoro consisteva nel redigere una completa schedatura storico-artistica della chiesa e del suo patrimonio, con rilievi planimetrici, descrizioni tecniche, e, ovviamente, relativo corredo fotografico.
La squadra lavorò alacremente, e tutto scorse con fluidità, fino al momento di procurarci di nuovo un mezzo per tornare alla stazione. In realtà mancavano molte ore, perché il treno sarebbe passato in tarda serata; ci parcheggiammo, noi e il nostro ingombrante bagaglio, in una sorta di circolo ricreativo, unico locale pubblico che trovammo aperto. C'era di che sedersi, prendere un caffè, e giocare qualche partita al biliardino alla fioca luce del neon. Le ore passavano stancamente, forse stavamo attendendo una navetta, anche su questo punto la mia memoria incespica, ma è proprio ora che interviene il colpo di scena. Entra un signore con un berretto di lana, dai tratti marcatamente nordafricani. Accenna un saluto, prende qualcosa al banco, e si mette ad osservarci incuriosito: noi, le nostre borse, il biliardino, l'ingegnere che sforna facezie a getto continuo.
Ci chiede chi siamo, e perché siamo lì; ha una faccia intelligente e simpatica, e non tarda a offrirsi, se ci stringiamo, di caricarci tutti e 5 nella sua capiente station wagon.
L'ingegnere non sta nella pelle, e si affretta ad offrire un compenso al nostro salvatore, che però viene prontamente respinto.
Ci ammucchiamo alla meno peggio nell'abitacolo, e iniziamo il breve viaggio.

"No, davvero -riprende l'ingegnere- poi ci dici quanto ti dobbiamo, almeno per la benzina"
Il guidatore prende fiato e gli risponde che no, che lui non fa l'autista; quella è una cortesia che ci sta facendo, perché lui, come lavoro, guarda caso, è proprio un suo collega, è a sua volta ingegnere, ha uno studio, una moglie e dei figli. Gli piace essere cortese, ma lascia anche intendere che la riserva di cortesia non è illimitata. 
In pochi minuti siamo nel piazzale della stazione. Mentre noi ringraziamo e stiamo per congedarci dal nostro nuovo amico, vedo, come al rallentatore, compiersi la tragedia: l'ingegnere numero 1, saltellando e squittendo ancor più del solito, si avvicina, estrae il portafogli e fa solo in tempo a dire: "No davvero..."

L'ingegnere (numero due) sbuffò, raccolse un pugno di neve dal tettino della propria station wagon, e la spalmò con metodo sulla faccia del collega.
"Ora amico hai rotto davvero", disse con calma, e quel gesto e quelle parole fecero esplodere in me una felicità la cui persistenza si è rivelata inattaccabile dagli anni.

Il gelo (è il caso di dirlo) era calato sul viaggio di ritorno, e anche se forse non è successo nella realtà, mi piace chiudere con l'immagine dell'ingegnere (numero 1) che scruta la notte dal finestrino e si lascia uscire:
"Lo dicevo io, che gli atti nn'erono belli".

Ed ebbe ragione fino alla fine, perché non ci aggiudicammo quella gara; il nostro elaborato ottenne il miglior punteggio in graduatoria, ma qualcuno fece un ribasso maggiore, e dunque, come avrebbe detto Camilleri, nuttata persa e figlia fimmina.

Sante Castignani
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Memorie di un fotografo #1 - Venere in conchiglia

12/26/2019

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(Foto di G. Tatge)

"La prossima volta che trovo qualcuno a Venere in conchiglia, mentre ha detto che stava a Larario fiorito, lo faccio uscire coi piedi innanzi".
E così dicendo, il custode G. F. toccò la fondina che gli pendeva sul fianco destro.
George trasalì, "Non le permetto di rivolgersi così ai miei collaboratori", ma l'approccio era troppo signorile per intimorire i nostri interlocutori, che anzi alzarono ulteriormente il tono, protestando ancor più apertamente il disagio che il nostro lavoro recava al loro.
Il fatto è che eravamo capitati nel bel mezzo di una feroce contesa che contrapponeva la Soprintendenza Archeologica ai duecento custodi degli Scavi di Pompei, e in un quadro già teso, le nostre continue richieste di operare al di fuori degli orari normali, di stendere cavi elettrici, di aprire lucchetti arrugginiti di cui si erano smarrite le chiavi, erano diventate il pretesto, l'arma di ricatto con cui gli uni fronteggiavano gli altri, a colpi di ostruzionismi, disservizi, lungaggini, e, ora, anche di minacce.
La lettera con cui George fece presente l'episodio alle alte sfere venne da queste stracciata, raccomandando al mittente di fare altrettanto, pena il rischio di ritrovarsi in tribunale con l'accusa di calunnia e decine di testimoni avversi.
Noi invece, quelli che si erano accollati il compito di portare a termine la catalogazione fotografica del sito archeologico più grande del mondo, eravamo quattro gatti: Luciano (che presto mollò), Alessio, e io col mio assistente. George, all'epoca dirigente tecnico dell'Alinari, veniva ogni tanto a sorvegliare l'andamento della travagliata missione, ma poi doveva rientrare a Firenze.
"La prossima volta che trovo qualcuno a Venere in conchiglia..."
"Ci siamo sbagliati, non abbiamo fatto apposta"
"Si ma noi, per uscire di notte dalla guardiola, non abbiamo alcuna indennità! Lo facciamo a nostro rischio e pericolo, e se un delinquente ci ammazza, la nostra famiglia non viene nemmeno risarcita. Così, se io sento un rumore, o vedo una luce dove so che non deve esserci nessuno, prima sparo, poi chiedo chi è"

La Alinari era intervenuta nell'operazione in quanto l'azienda locale che aveva iniziato il lavoro stava procedendo a un passo troppo lento, che non avrebbe consentito il rispetto dei tempi stabiliti.
Iniziò un laborioso processo di affiancamento che ci portò a fare in sei mesi quello che gli altri avevano fatto in due anni. Comprai qualcosa come 300 metri di grosso cavo elettrico che pesava in modo spropositato, e che andava steso all'inizio, e raccolto al termine del lavoro; nuovi illuminatori al tungsteno per le volte in cui scattavamo di notte (scelsi, su consiglio di Luciano, i Lowell Tota-Light), e un set di Flash Bowens Traveller per gli scatti in Daylight. Cercammo un appartamentino in affitto (che si rivelò essere una specie di garage), e presi la specializzazione in aglio olio e peperoncino. Ettore, il ragazzo di Pompei che ci aiutò in tutto quel periodo, ci portava spesso delle mozzarelle ancora calde che scomparivano, sciogliendosi letteralmente in bocca, a tempo di record. 
Avevamo il terrore dei furti, e invece non solo non ci mancò mai nulla, ma vennero addirittura a riportarci del materiale che avevamo dimenticato in giro.
Ogni giorno, al termine del lavoro, Ettore prendeva il materiale scattato e andava a Napoli per farlo sviluppare.
Anche il consorzio che pilotava il tutto, aveva sede a Napoli. Le digitalizzazioni dei nostri scatti (pellicola piana 4x5"per i soggetti più importanti, e 35mm per il resto) occupavano una sala immensa piena di server grandi come frigoriferi. Oggi il tutto starebbe in una pen drive, ma nel 1988 le cose andavano così. Di quel materiale, e dei 40 miliardi di lire che costò, credo che oggi sopravviva solo qualche articolo nel web, come ad esempio questo ...

Ma per me, per noi, che partecipammo alla (nonostante tutto) meravigliosa avventura, rimangono ricordi ed emozioni incancellabili: le camminate sotto la luna sui selciati millenari, i thermos di caffè nel mite inverno del Vesuvio (anche in quelle sporadiche occasioni in cui lo abbiamo visto spolverato di neve), il mistico silenzio che all'ora di chiusura rimpiazzava la caciara dei turisti, il pettirosso che zampettava sui profumati cespugli di eucalipto nella luce rosata del tramonto, i grappoli d'uva lasciati ad avvizzire nelle vigne dei giardini, e, naturalmente, la sfogliatella (rigorosamente riccia) di Scafati, la macedonia a Mergellina e la sontuosa pizza al metro di Giggino 'u zuzzuso  a Vico Equense.


Sante Castignani
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