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Memorie di un fotografo #12 - La prima macchina fotografica

3/8/2020

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Eh si, allora si chiamava macchina fotografica, non come oggi,  fotocamera ​.

1973, gita scolastica di seconda media, destinazione Roma.
Piazza San Pietro, Musei Vaticani, Cappella Sistina, e poi lo Zoo (eh si, a quei tempi non si chiamava ancora bioparco).

Allo zoo dunque, appena oltre il cancello di ingresso, c'era un baracchino che vendeva souvenir; tra questi, in bella evidenza, veniva offerta, a 1000 lire, la Diana, compresa di un primo rullo BN 120; il secondo ne costava 400, e ovviamente presi il pacchetto completo.
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Di Jim Newberry (Jimtron) - Jim Newberry Photography, CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1028822

Anche altri miei compagni fecero la stessa cosa, e da quel momento la nostra gita si trasformò in un safari fotografico, prima allo zoo, e poi per il resto della giornata.

Digressione: i tredicenni del mio paese, in quell'epoca, non si sarebbero detti granché portati ad attività pacate come la fotografia. La nostra giornata tipo non era completa se non comprendeva: una scazzottata; una corsa di carriole con le ruote fatte coi cuscinetti a sfera, a capofitto giù per i vicoli; una gara a chi ammazzava più lucertole col fucile a rondelle; una guerra a fiondate, scagliandosi alternativamente sassi e chiodi a "U"; uno scontro con le cerbottane, rigorosamente con lo spillo infilzato in cima al "picchiatello", una esplorazione di grotte e cunicoli con le candele come illuminazione, e altre simili amene attività ricreative, che ci vedevano rientrare in casa a sole tramontato, pieni di lividi, nascondendo lesioni varie, e rassegnati a prendere la razione finale di botte, stavolta legittime, dai nostri genitori.

Faceva un po' strano, dunque, vederci armeggiare con il giocattolo di plastica, dirigendo goffamente le pose dei compagni davanti alla gabbia delle scimmie. Ci ricapitolavamo a vicenda le sommarie istruzioni del venditore, e mai avremmo pensato che per qualcuno di noi, in questo caso lo scrivente, quello sarebbe stato l'atto di nascita di una passione lunga una vita.

Rientrati a Spello, terminai il secondo rullino, e poi di corsa, con la paghetta, a sviluppare le foto da uno dei due negozi del paese. Si poteva scegliere tra Paradisi, tuttora in attività, e Balìo, il barbiere-fotografo che prima della fototessera ti metteva a posto la chioma, e che sul tavolo delle forbici teneva come soprammobile una meravigliosa Rolleiflex 2,8 F. I risultati di quei primi tentativi, oggettivamente modesti, mi parvero all'epoca miracolosi. Questo anche perché un'altra fotocamera molto venduta in quegli anni, costava mille lire anche questa, era una microcamera già sperimentata da un mio compagno, che aveva la bella caratteristica di non funzionare (o per lo meno, nessuno di mia conoscenza è mai riuscito a cavarne qualcosa), dunque temevo lo stesso per la mia economicissima Diana, che invece dimostrò di avere il passo lungo, essendo diventata di gran moda decenni dopo, sia col suo nome che con l'altro più diffuso, Holga, dando origine a un fenomeno, quello delle toy-cameras, che tuttora non ha scritto la parola "fine".

Ovviamente la Diana durò poco, rapidamente fu rimpiazzata prima dalla Comet Rapid che mi regalò mia sorella, e poi a seguire da macchine sempre migliori, ma senza mai scialacquare, almeno fino a quando, trovato lavoro, non ho iniziato a comprarle con i miei soldi. 

Ma torniamo alla gita, e a quei primi scatti. Mi congedo con uno di questi, che ritrae il mio professore Diego Simeone così come è normale che si sentisse dopo una giornata con quei tranquilli fanciulli.
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Il mio professore - 1973, dal mio secondo rullino.

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Memorie di un fotografo #11 - Oskar Schlemmer

2/26/2020

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Oskar Schlemmer: Il balletto triadico 

Nel 1995 un importante laboratorio di restauro mi affidò un incarico per un insolito intervento: specialisti abituati a mettere le mani su fondo oro e affreschi, stavolta erano stati ingaggiati per restaurare, e successivamente asportare, un'opera molto più moderna, di scuola Bauhaus; per la precisione, l'artista in questione era Oskar Schlemmer. 
L'opera si trovava in una abitazione privata di Stoccarda, e raffigurava la famiglia dei padroni di casa. 

Premetto che il mio ruolo nella vicenda che sto per raccontare è abbastanza marginale, essendomi limitato a svolgere un lavoro di routine, ma i retroscena di cui sono stato testimone mi sembrano gustosi e meritevoli di condivisione.

La casa che custodiva lo Schlemmer era destinata alla demolizione. Già questo era abbastanza triste in quanto si trattava di una pregevole e ormai rara testimonianza di architettura civile tedesca del primo Novecento, ma il terreno sulla collina di Vaihingen aveva raggiunto quotazioni tali da far sorvolare facilmente su considerazioni sentimentali, e di lì a poco al posto del bel giardino sarebbe sorto
 il solito palazzone, a superflua dimostrazione che tutto il mondo è paese. 
In questo progetto, lo stop imposto dalla soprintendenza alla demolizione, finché non fosse stato messo in salvo il suo prezioso contenuto, si abbatté come una tegola sui proprietari, che si misero in moto per cercare una soluzione. Un affresco si può staccare, ma una tecnica mista come quella in oggetto (tempera, encausto, colori a olio) doveva essere asportata assieme alla parete sulla quale era nata, o almeno parte di essa. Ma prima di ogni altro intervento, necessitava di restauro e consolidamento.
Come di regola in ogni intervento simile, il primo passo consiste in una puntuale indagine e documentazione fotografica. Per l'occasione mettemmo in campo il menu completo: luce visibile, ultravioletto, telecamera infrarosso, e luce radente. Seguirono analisi chimiche e spettrografiche delle quali fui solo testimone, e con il carniere pieno di rulli 120 da sviluppare, ce ne tornammo a casa. Consegnato il mio materiale, i tecnici del laboratorio ne trassero le dovute conclusioni, elaborarono il progetto, e si trasferirono a Stoccarda per il tempo necessario al restauro.

Un salto temporale che ci porta dall'inverno alla primavera, e ci vede nuovamente a montare lampade e treppiedi per le foto finali. Sorpresa, dal nulla era spuntato un quadrato giallo ocra a fare da sfondo e amalgamare le figure rappresentate nell'opera. Manifestai il mio stupore, e a quel punto venni aggiornato con il racconto che sto per riferire. 

Sulla base di alcuni flebili indizi, i miei amici si erano convinti che quella che oggi appariva come una semplice superficie bianca (per di più ripassata a tempera più volte nei decenni trascorsi), doveva essere, al tempo della realizzazione dell'opera, appunto la famosa campitura gialla. Partendo da questa convinzione, con un asso nella manica di cui dirò tra breve, pur consapevoli della fragilità delle prove scientifiche (il cadmio, mi spiegarono, ha la brutta abitudine di decadere rapidamente con la luce, fino a scomparire completamente), ripristinarono il dipinto come in origine. 
Si scatenò l'inferno. Un giornale denunciò lo scempio, la soprintendenza scese in campo in assetto di guerra. I restauratori italiani, accreditati di essere i migliori al mondo, stavolta avevano combinato un bel pasticcio. I miei amici lasciarono parlare tutti, poi convocarono una conferenza stampa, e dopo la dovuta dose di suspense, tirarono fuori da sotto il tavolo un libro d'arte degli anni '50, dove l'opera, riprodotta miracolosamente a colori (la maggior parte delle illustrazioni erano in bianco e nero), esibiva inequivocabilmente il quadrato giallo! Ma il libro non era piovuto dal cielo, era saltato fuori, a seguito di intense ricerche, proprio per suffragare un teorema già compiuto, a dimostrazione di quanti livelli di maestria siano necessari per essere i migliori in questo campo.

Ma la lezione non fu sufficiente, perché venni poi a conoscere il triste epilogo: giudicato troppo esoso il preventivo della impresa italiana per l'asportazione del dipinto (che prevedeva un assottigliamento della parete, e l'ingabbiatura della porzione interessata in una struttura metallica appositamente progettata), i committenti ripiegarono su qualche praticone locale, con il risultato che si spaccò tutto, con danni all'opera di cui non sono in grado di precisare l'entità o la sanabilità. E di conseguenza non so nemmeno se poi l'opera sia approdata o meno alla Staatsgalerie che ne aveva rivendicato la prelazione.

L'ultimo ricordo che ho di quella vicenda è il Subasio innevato a maggio inoltrato, dal finestrino dell'aereo che mi portava a Roma, e l'apprensione per la nascita di Elena, già in ritardo sulla tabella di marcia, forse per non farmi il torto di venire al mondo in mia assenza.



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Memorie di un fotografo #10 - Arsenico e vecchi merletti

2/17/2020

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Arsenico e vecchi merletti
Commedia moderatamente comica in 4 atti
(Ispirata a fatti reali, con nomi di fantasia).

Il primo atto vede il sipario aprirsi sul luminoso interno di una antica dimora di campagna, sorta in epoca immemorabile, e mutata nella foggia attuale, di piccolo maniero, da qualche solerte ristrutturazione ottocentesca.

-Ogni volta che Perkins veniva a trovarmi, mi chiedeva di poter contemplare Assisi da quella finestra -la vecchia vedova Mori solleva il dito ad indicarne una- ...diceva che da lì si gode della più bella vista della città.

​Nella casa regna una atmosfera irreale, fuori del tempo. Tutto sembra essersi fermato, come nel castello della bella addormentata, a mezzo secolo prima. La padrona di casa e la sua governante, molto anziana anch'essa, osservano con vaga curiosità l'andirivieni degli operai che stanno trasportando e posizionando i mobili di design che qualche art- director intraprendente ha deciso di collocare in quello scenario vissuto.

-Vede? -mi mostra una cornice di argento- io e il mio povero marito in questa foto siamo con Filippo di Edimburgo, nostro ca-ri-ssi-mo amico. Sapesse a quanta gente qua del paese ho trovato lavoro! Li mandavo in Svizzera, alla General Motors! Ho fatto assumere anche due falegnami. Mi chiesero: cosa ne facciamo di due falegnami? Metteteli a lucidare i cruscotti in radica! gli ho risposto. Vede quella finestra? Ogni volta che Perkins veniva a trovarmi mi chiedeva di poter contemplare Assisi da quel punto di osservazione! Diceva che non ce n'era uno più bello.

Le vetrinette scintillano di cristalli; i pavimenti in cotto, parquet o graniglia, riflettono la luce come il marmo. Le dorature delle porcellane inglesi dipinte a mano dialogano teneramente con l'atmosfera soffusa e brunita delle stanze silenziose, animate solo dal nostro tramestio. La vedova sorveglia il tutto sprofondata in poltrona, mentre la governante scivola come una'ombra da una stanza all'altra, probabilmente disorientata, come un gatto domestico, da quella confusione che intralcia il suo usuale dominio.


Per l'atto secondo, ci spostiamo in avanti di venti anni e di pochi chilometri, esattamente nel cuore di quella Assisi che Perkins amava tanto. La casa museo di Betty Williams è stata posta in vendita, e un mio cliente, comune conoscente, incaricato della transazione, mi ha chiesto di provvedere un adeguato servizio fotografico.

-Prima di prendere qualsiasi iniziativa, sempre CHIEDERE, CHIEDERE, CHIEDERE.

Così ammonisce uno dei numerosi fogli in formato A4, stampati al computer con grafica sommaria, e disseminati nella casa, con particolare riguardo alle stanze destinate al personale di servizio.
Il palazzetto è magnifico; è circondato da un giardino curato in modo impeccabile, che accoglie una cappella privata e ulivi secolari trapiantati direttamente da Gerusalemme, ospita arredi e vestigia di inconsueta bellezza, ma l'atmosfera che vi si  respira è densa e opprimente. La vecchia vedova Williams, che in gioventù si dice essere stata tanto bella da folgorare (e sposare) l'omonimo magnate, sembra ormai solo una goffa e sadica carceriera. Accompagna gli scambi di parole con il mio mediatore con impercettibili scuotimenti di testa e inarcamenti di sopracciglia, e quando il disaccordo monta troppo, ruota sgraziatamente sui tacchi e si sposta in un'altra stanza.
 
Io semplicemente sembro non esistere, e lavoro tranquillo fino al momento in cui, per dare un po' di vita a un angolo troppo buio del salone (dove solo il rosone romanico incastonato nella parete vale come una abitazione media), mi permetto di accendere una lampada. Alle mie spalle piomba come una furia la vivace signora, spegne la luce e mi fulmina con uno sguardo fiammeggiante, prima di tenere una lunga e piccata dissertazione sulle mille ragioni per cui i fotografi non devono mai permettersi di accendere, nelle case delle anziane miliardarie, luci che hanno trovato spente. 
Conto fino a dieci, ingoio, e proseguo con il mio lavoro, incassando occhiate complici dalle cameriere, e da un giovane e gentile segretario, che a quel punto della storia devo ancora scoprire se sia o meno dotato di parola.

(Nuovo cambio di scena, e torniamo a Villa Mori).

-Gradiscono un cordiale? 

Ne avevo sentito parlare, forse ricordavo la pubblicità del Cordial Campari, ma sinceramente era la prima volta che mi veniva offerta la desueta bevanda, e non vi avrei rinunciato per nulla al mondo. Seduti attorno a un tavolo da cucina, il cui piano era costituito da una lastra di marmo spessa almeno 10 centimetri, tra il tintinnare di bicchierini di Boemia e bottiglie intagliate, sulle quali piccole etichette vergate a mano distinguevano il nocino dal rosolio, e quest'ultimo appunto dal cordiale, ascoltavamo i racconti della amabile vecchietta, e nel contempo vagavo con gli occhi sulla bella cucina artigianale, i cui elementi, in legno dipinto di azzurro, ricoprivano per intero le pareti. La piccola istriona colse il mio sguardo, e ci raccontò di come quell'arredo fosse stato fortemente voluto dal compianto marito, che aveva uno stra-ordi-na-rio gusto per l'arredamento e l'arte, e non per niente era anche molto amico, come lei del resto, nientemeno che di Filippo di Edimburgo.

Poi si intrattenne a lungo, in una chiacchierata commossa, con uno dei falegnami che aveva fatto assumere alla General Motors, che nel frattempo ne aveva fatta di strada. Ci spiegò, allargando a noi la conversazione, di come fosse riuscita nell'impresa di piazzare un falegname in una fabbrica di automobili: era stato sufficiente suggerire loro di metterli a lucidare i cruscotti in radica. E ad ogni refrain, attrice consumata, dispensava un sorriso. Certamente deve essersi fatta forza per accontentarsi, lei che ne aveva avute di ben più prestigiose, di quella modesta audience, ma benevolmente non volle farcene una colpa, e mantenne il registro fermo sulla sua aristocratica leggerezza fino alla fine, quando ci congedò dicendo:

-Vedono quella finestra? sapessero quante volte Perkins si è affacciato da lì, per contemplare Assisi...


​(L'atto finale si consuma dopo un nuovo salto spaziale e temporale che ci riporta a casa Williams).

Io ero ancora occupato, sotto le direttive del mio cliente, a documentare le varie stanze e scorci. A un certo punto, un grido isterico alle mie spalle fece sobbalzare tutti i presenti. 

-Ma allora è proprio stupido! -il tono di voce, complice anche l'accento, era ancora più sgradevole- ma non capisce che non deve fotografare il pianoforte dove ci sono foto che ritraggono persone che lei non ha il diritto di mostrare? Guardi questo, ad esempio: è... Filippo di Edimburgo! non capisce che non si deve vedere la sua foto?!?!
Solo le persone stupide fanno queste cose senza prima chiedere!

Il gelo era sceso nel salone di casa Williams. Mentre meditavo la risposta, vidi distintamente il panico attraversare la faccia del mio cliente, che implorava con lo sguardo di non cedere alla provocazione. Ma per me la misura era colma. Calibrai il tono, e rivolgendomi direttamente al mio committente, gli dissi che senza delle scuse immediate io avrei raccolto i miei stracci e me ne sarei andato subito, perché non mi era mai capitato di essere trattato in quel modo da nessuno, tanto più con dei rimproveri sconclusionati come quelli: il pianoforte, nella foto che stavo scattando, era un piccolo oggetto sullo sfondo, nessuno avrebbe mai potuto decifrare il contenuto dei portaritratti. Ma siccome ero io lo stupido, quella là (sic!) aveva il diritto di trattarmi come fossi un suo servo? Ma per favore!

Non ricordo quale fu il gesto di pace che mi fece interrompere la preparazione dei bagagli. Ricordo solo che per tutto il resto della giornata la padrona di casa non si fece più vedere, lasciandomi piena giurisdizione su tutti gli interruttori e pianoforti che avessi voluto. Ricordo poi di come appurai la perfetta efficienza vocale del segretario: mi avvicinò mentre stavo lavorando ai piani superiori, e mi scandì sottovoce quanto avessi fatto bene a ribellarmi alla tiranna, prima che questa (testuale) mi mettesse i piedi in testa. E un sorrisetto di soddisfazione gli sfuggì, suo malgrado, mentre rievocava il mio gesto di ribellione, destinato forse a diventare leggenda in quel piccolo mondo oppresso.

Seppi della morte della milionaria solo alcuni anni dopo. E fu allora, lo ammetto, che persi definitivamente la speranza di riscuotere i soldi del mio servizio.
​
Che possa riposare nel luogo che il Giudice Supremo avrà ritenuto più appropriato.

(Sipario)
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Memorie di un fotografo #9 - La veggente

2/11/2020

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-Pronto? Il signor Castignani? Sono (...) di Radio M., mi ha dato il suo contatto Monsignor B. Mi ha detto che lei ha dei bei fotocolor della Cappella (...), e vorremmo pubblicare un paio di immagini in un libro di preghiere che stiamo preparando.

l'accento è nordico, e il tono è frizzante, da manager che ha poco tempo per le indecisioni.

-Senta, noi saremo in Umbria la settimana prossima (nei primi anni '90 settimana prossima non aveva ancora perso l'articolo determinativo), se lei avesse tempo di incontrarci, eviteremmo la spedizione; in più, visto che lei è un fotografo, porti la macchina fotografica, che andiamo ad incontrare una veggente, e potrebbe essere una cosa interessante.

Un po' sorpreso, ma incuriosito, acconsentii.

Appuntamento davanti a una concessionaria auto; rapido scambio di presentazioni con due gentili signori, che, accennando all'orologio, si affrettano a risalire in macchina, e mi fanno segno di seguirli. Dopo pochi chilometri di strada asfaltata imbocchiamo una stradetta di campagna, e la percorriamo fino a quando un gran numero di automobili parcheggiate, alla meno peggio, in prossimità di un casolare ristrutturato, ci fa capire che siamo arrivati a destinazione. Scendo dalla macchina, e vedo che i due signori prendono dal bagagliaio della station wagon una piccola cassa di legno ciascuno. Qualcuno ci fa strada, e attraversiamo un ampio salone in penombra; lungo le pareti, sedie e panche; alcune decine di persone, quasi tutte donne, pregano sottovoce con il rosario in mano. 

Raggiungiamo una saletta appartata. Qua i due uomini appoggiano le casse su un tavolo e tolgono i coperchi; all'interno, tra trucioli di legno, due statue in maiolica raffiguranti la Madonna. Si scambiano qualche parola di cui fatico a cogliere il senso, e tutti e tre torniamo all'aperto.
Dopo una certa attesa, qualcuno ci avverte che la persona che stiamo attendendo sta per scendere.
Di lì a qualche istante, dalla scala esterna del casolare, ho anch'io la mia brava apparizione.
Bionda, alta, occhi chiarissimi, scende i gradini con dignità regale; il suo sguardo ci soppesa freddamente, e non lascia trapelare emozioni di sorta; di certo, non ne traspare cordialità. Si presenta e ci da la mano. Il suo nome allora non mi disse nulla. Poco informato di eventi prodigiosi, ero rimasto ai fatti di Lourdes e Fatima, e ho dovuto attendere molti anni prima di rivedere quegli occhi di ghiaccio, stavolta non di persona, ma in programmi di inchiesta che la mettevano al centro di controverse vicende tra il sacro e il profano, e soprattutto a capo di un vertiginoso giro di dubbi affari, e di un impero economico tutto basato sulle apparizioni mariane di cui era stata oggetto e testimone.

Ma torniamo alle campagne umbre, e rechiamoci tutti e quattro, passando stavolta da un accesso esterno, alla saletta dove ci attendono le casse con il loro prezioso contenuto.

I due uomini tirano fuori le statue, le mettono dritte, e cercano ansiosi un parere da chi ha goduto di un privilegiato punto di osservazione, dando il via a una delle conversazioni più surreali cui abbia assistito. Farò del mio meglio per riportare i passaggi di cui ho memoria:

-Può andare bene, l'insieme?

(con accento slavo, e aria più scettica che convinta)
-Si, più o meno...

-...e il colore della nuvola?

(con il tono scocciato di chi abbia già dovuto ripetere molte volte lo stesso concetto a un uditorio di sciocchi)
-Quello è colore che io mai visto qua sulla terra, dunque si, può andare bene, ma non è uguale; ma non è importante perché tanto non può essere uguale, e allora uno vale l'altro...

-...e la posizione delle mani? come le teneva quando le parlava?

-Allora! Madonna non è come Italiani che parlano con mani! (pausa)  Ma comunque, si, anche qui non è importante, può andare bene anche così, questa meglio forse, delle due.

I due signori, un poco abbattuti e spiazzati dalle secche risposte della veggente, cercarono comunque di tirare le fila:

-Dunque, se abbiamo capito bene, questa è quella più fedele, e la teniamo come campione. L'altra, a questo punto, la doniamo ai padroni di casa.

Fu come se una botola si fosse spalancata sotto i nostri piedi.

-Ah, si? -il tono era sferzante- tu regali statua a padroni di casa? Allora, prossima volta, tu chiedi a padroni di casa come è madonna!

E girò i tacchi. E andò certamente a rastrellare le "offerte" delle decine di devote in spasmodica attesa.
I due signori di Radio M., a quel punto mi fecero quasi tenerezza; si scambiavano sguardi smarriti chiedendosi dove avessero sbagliato. Chiesero scusa anche a me, non solo perché non si era presentata l'occasione (in cui speravano) di qualche bello scatto con la testimonial della loro impresa, ma anche perché mi ero trovato ad assistere a un siparietto così poco edificante.

Ma mi sentii di rassicurarli: a me, agnostico di coccia dura, uno spettacolo più gustoso e memorabile non potevano offrirlo. Ed è per questo, che pur in assenza di qualunque testimonianza fotografica, ho voluto eternarlo anche per i miei 21 lettori (25 se ne attribuiva Alessandro Manzoni, 23 Giovannino Guareschi che non se la sentiva di mettersi alla pari, e a me non rimane altro che accodarmi).
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Memorie di un fotografo #8 - La ragazzina dai capelli rossi

2/5/2020

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Per colpa di un paio di piedi storti, ho passato buona parte della mia infanzia e adolescenza nel reparto di ortopedia dell'ospedale di Perugia. In particolare le estati del 74, 75, e 76 sono impresse nella mia memoria, perché ormai avevo rispettivamente 14, 15 e 16 anni, e rappresentarono il punto di arrivo del lungo percorso di cura.

Il nostro racconto ci porta proprio nell'estate del 1974. La mia passione per la fotografia era sbocciata da un paio di anni, ed ero riuscito a procurarmi, tramite un complicato giro di scambi con un amico, una fotocamera un po' più decente della mia prima Diana (che avevo acquistata in gita scolastica, e di cui parlerò magari in un'altra occasione), ed ero molto soddisfatto della nuova Agfa Karat Rapid:
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Agfa Karat Rapid - Ph. courtesy John Nuttall, Creative Commons, modified

Ovviamente non era una macchina di fascia alta, ma la qualità non mancava. Poi potevo finalmente disporre di un otturatore con tutti i tempi di scatto, e di una ampia gamma di diaframmi. E l'obiettivo era un ottimo Apotar che mi avrebbe regalato belle soddisfazioni. Più o meno nella stessa epoca, cominciavo a praticare la camera oscura di mio cognato, e il cerchio si chiudeva, in una gioia inimmaginabile. La fotografia a quei tempi era ancora una passione poco diffusa, si passava un po' da matti, ma di certo non c'era il rischio di essere sballottati dalla corrente.

Torniamo alle mie vacanze passate in ospedale. Mentre La Settimana Enigmistica si esauriva in poche ore, le giornate (per non dire delle nottate afose) erano interminabili. Ammazzavo il tempo leggendo, giocando a carte coi compagni di corsia, facevo lunghe e pigre chiacchierate, ascoltavo la radio con l'auricolare, e naturalmente divoravo riviste di fotografia; poi al momento opportuno tiravo fuori la macchina, e cercavo di centellinare i pochi rullini nel raccontare la mia quotidianità. Conservo ancora molti scatti degli amici di quell'epoca, e tutto sommato, come avviene spesso ripensando a periodi pur trascorsi in luoghi poco allegri, sono ricordi piacevoli.

Quando la calura concedeva un po' di tregua, io e mia madre (che non mi abbandonava un minuto) uscivamo a passeggiare per le stradine del Policlinico di Monteluce. Ci spingevamo fino al bar, qualche volta facevamo tappa nella frescura della cappellina, e finivamo il giro consegnandoci invariabilmente alle panchine del giardinetto, spoglio, ma ombreggiato da grandi pini marini. 

Quattordici anni. La fotografia non era l'unica passione che stava sbocciando in quel ragazzino dalle gambe ingessate. Immersi nell'odore resinoso di quel quadrato d'erba, nell'ora in cui il sole comincia ad indorare, oramai nell'imminenza della cena (che come si sa negli ospedali viene servita in orari non proprio mondani), il giardinetto si animò, e un'altalena prese a dondolare. Se dovessi tentare di descrivere quello che provai alzando gli occhi dal muretto dove stavo schiacciando i pinoli con un sasso, scivolerei nella più sguaiata letteratura rosa, e sarebbe un esercizio gratuito, trattandosi di situazioni che ciascuno ha sperimentato in proprio. Per i nostri scopi, basti dire che prima di poter stabilire (naturalmente a occhio) tempo, diaframma e distanza dal soggetto, ebbi bisogno di riprendermi un momento. Settata la triade, caricai l'otturatore (operazione manuale anche questa), e, non avendo il coraggio di puntare l'obiettivo in faccia al soggetto, appoggiai la macchina in terra e mirai a casaccio. Poi avrei aggiustato l'inquadratura in camera oscura, come fu.

​E tutto questo: l'ospedale, il giardinetto, la noia, la ragazzina, il sole dorato, lo scatto rubato, l'emozione della stampa; tutto questo, decenni dopo, mi è tornato vivido, fragrante, non rappresentato, ma reale, solo ritrovando la vecchia fotografia che pubblico:
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E una volta di più, mi convinco che la fotografia si nutre di letteratura più che di immagine. E ancora, parafrasando qualcuno, se questo racconto fosse un romanzo, sarebbe forse A' la recherce du temps perdu. La ragazzina dai capelli rossi sarebbe stata la mia Gilberte; il giardinetto, il confine della tenuta degli Swann, e, la fotografia ritrovata in età matura, un dolce pezzetto di Petite Madeleine inzuppato nel tè, o, come sostengono alcuni esegeti, nell'infuso di tiglio (ipotesi questa -mi scuso per la saccente digressione- corroborata da precedenti stesure del romanzo, e a me particolarmente gradita per il contributo, quasi sinestetico, che quel profumo sembra recare alla dolce melassa della memoria).

​E io, naturalmente, sarei il vecchio arnese ferito dalla vita, che ripercorre, come sola medicina, il sentiero dei lontani ricordi.


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Memorie di un fotografo #7 - La Porziuncola

2/1/2020

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Sul finire del 2006 venni contattato da uno studio di amici architetti, per una richiesta abbastanza singolare: nella città di San Francisco, gemellata con Assisi, era stato varato un progetto molto particolare ed ambizioso: costruire una replica fedele, solo leggermente più piccola, della Porziuncola di Santa Maria degli Angeli. Per l'esecuzione di questa opera, che si voleva il più possibile identica in ogni dettaglio all'originale, avevano bisogno di una rappresentazione fotografica molto specifica; non una semplice documentazione, ma una mappatura vera e propria, dove, mantenendo la massima costanza dimensionale e prospettica, ogni parete, soffitto, pavimento, dipinto doveva essere suddiviso in piccole porzioni (garantendo così il miglior dettaglio) contigue e combacianti, così da poter ricomporre l'intero scenario "incollandone" le parti.
Un incarico laborioso, ma non particolarmente complicato, almeno da un punto di vista concettuale. Ma mano a mano che prendevo atto della ampiezza della operazione, si presentò un problema: la basilica di Santa Maria degli Angeli, che ospita al proprio interno la Porziuncola (ma sarebbe più corretto dire che la prima è stata edificata come scrigno per custodire la seconda), è aperta tutti i giorni ai visitatori, e non sarebbe stato concepibile eseguire la documentazione sopra descritta in presenza di pubblico. In particolare si rendeva necessario togliere tutte le panche, svestire l'altare, rimuovere suppellettili, e così via, tutte attività che non si sarebbero conciliate con la normale funzione devozionale, o anche solo turistica, del sito.

Rimaneva la notte, ma i frati, pur mostrandosi motivati e disponibili, stentavano a cogliere l'entità dell'intervento; noi fotografi del resto siamo abituati a veder sottostimare l'impegno di servizi di questa natura, il più delle volte il cliente pensa che in un'ora puoi fare quello che nei fatti ne richiederà dieci, e allo stesso tempo l'avanzata degli strumenti tecnici ha instillato in molti la convinzione che oramai sia tutto estremamente rapido e banale. Feci un sopralluogo, mi consultai con la committente (la vice-sindaca di San Francisco, promotrice del progetto, che soggiornò ad Assisi per tutto il tempo dell'operazione), e iniziai con la parte del servizio meno invasiva e che poteva essere svolta nel normale orario. Nello specifico: tutti i prospetti esterni, i relativi dipinti, il campanile, il tetto, le finestre, tutto quello in pratica che non richiedeva nulla di più della fotocamera e un treppiedi, e, mentre svolgevo questa prima parte, cominciai a tastare il terreno su quello che sembrava un tabù invalicabile: avere accesso al sito di notte, senza turisti e fedeli tra i piedi.

La richiesta trovò nei religiosi una grande riluttanza, e potevo capirlo. Quello che per me era solo il luogo in cui svolgere un lavoro, per chi lo custodiva rappresentava e rappresenta uno dei luoghi più sacri della cristianità, e una delle gemme artistiche più preziose. La questione rimase sospesa per qualche giorno, ma alla fine venne risolta a nostro favore, e si giunse alla fatidica concessione, seppure per una sola, unica, e irripetibile nottata.

Sarebbe stata una lotta contro il tempo, lo sapevo bene, e non mi sbagliavo. Mi assicurai due giovani collaboratori (il fidato ed efficiente Marco, e una studentessa straniera appassionata di fotografia cui non parve vero di partecipare a una simile avventura), e preparai thermos di caffè, e generi di conforto. Il frate francescano che si apprestava a chiuderci dentro, con grande garbo e un bel sorriso, mi fece il discorsetto:

- E' dai tempi della guerra che nessun estraneo passa la notte nella nostra chiesa; è un luogo sacro, confidiamo nella vostra capacità di portargli il dovuto rispetto...

E attivò l'allarme, incarcerandoci di fatto fino alle sei del mattino, orario che allora ci parve molto lontano, ma che arrivò fin troppo presto, come già anticipato. Liberammo l'interno della chiesetta, e iniziai a percorrere, come uno scanner, tutte le superfici; posizionavo il treppiedi prendendo i dovuti riferimenti e scattavo una serie di foto; poi alzavo la colonna e ripetevo il tutto per la fascia superiore della parete; a quel punto mi spostavo lateralmente di mezzo metro e ripetevo l'operazione, e così via fino ad esaurire tutte le prospettive. Assieme alla macchina ovviamente si spostavano i flash con i rispettivi stativi, e il relativo groviglio di cavi e prolunghe. Fogli di appunti, caricabatterie, laptop, tutto andava fatto con ordine e logica, pena tralasciare qualcosa di importante, sempre tenendo in mente la missione principale: consentire agli artigiani che avrebbero messo in atto il progetto di vedere con chiarezza ogni minimo dettaglio; se tra due pietre c'era un chiodo storto, un fabbro californiano avrebbe dovuto forgiarne uno uguale. Letta in questa ottica l'impresa può rivelarsi titanica; ogni oggetto tridimensionale va visto nelle varie prospettive; la pala di Prete Ilario non è più importante della staffa che la sorregge; una semplice finestrella si declina in visione frontale, strombatura (da rappresentare nelle rispettive ortogonalità), infisso, ferratura del medesimo, e così via.

E di tutto, con metri e fettucce, rilevavamo le quote, al fine di conservare nelle rappresentazioni di insieme (ottenute sommando i parziali) le esatte proporzioni, cosa non scontata vista la tendenza degli obiettivi grandangolari ad allargare, devastando le geometrie. Mi sto dilungando nei dettagli tecnici solo per far capire meglio la laboriosità del lavoro, e come sia stato possibile ritrovarsi a poche decine di minuti dalla apertura della chiesa ancora in alto mare; tutta l'attrezzatura sparpagliata, le panche disseminate nella navata della chiesa principale, un milione di cose da raccogliere, e ultimi scatti ancora da fare. Ma, raccogliendo le ultime forze, a capo basso, siamo riusciti a portare la nave in porto con cronometrica precisione. Quando il frate gentile e sorridente ci ha aperto la porta, la distesa dei borsoni era in ordinata attesa di salire in macchina.

Alla fine consegnai alla mia committente più di 500 scatti. Quelli che raffiguravano i dipinti sono stati trasferiti in altissima risoluzione su Pictografia dagli amici di Bottega Tifernate; tutti gli altri sono serviti da modello per la realizzazione dello straordinario clone della Porziuncola Nuova, come è stata chiamata la replica americana del nostro monumento, inaugurata nel settembre del 2008.

(Da Wikipedia):

Porziuncola in America
​
In San Francisco, California, there is a replica of the Porziuncola Chapel. The Archdiocese of San Francisco built a 78% scale copy of the original chapel in a former gymnasium adjoining the Church of the National Shrine of St. Francis of Assisi in The City's North Beach District. It opened in September 2008 and in 2010 was placed under the care of the Capuchin Franciscan friars of the Western American Province.

Post scriptum:
Dal commento in Facebook di un amico apprendo che l’esito finale del lavoro non è stato all’altezza delle aspettative, e se un po’ mi dispiace per aver partecipato alla cosa, d’altro canto mi fa piacere pensare che l’originale mantiene intatta la propria supremazia!
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Memorie di un fotografo #6 - Il book

1/25/2020

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Appesa alle bianche pareti c'era l'opera omnia di Ansel Adams, che era mancato solo un paio di mesi prima. C'era naturalmente anche Moonrise, che troneggiava maestosa, e che di lì a poco avrebbe stracciato tutti i record di aggiudicazione alle aste. Avevo fatto il giro della galleria con studiata calma, sapendo che non mi sarebbe ricapitata tanto presto l'occasione di contemplare le stampe originali di un simile mostro sacro. Quando mi sentii sazio, mi avviai, con la gola secca, verso l'addetto del desk, per chiedere se fosse possibile far esaminare un portfolio. Me ne stava venendo meno anche il coraggio, ma ormai che ero lì decisi che bisognava dare un senso all'aver trasportato oltreoceano il massiccio mattone nero che mi scarrozzavo sotto il braccio.

- Certamente, Signore. Deve lasciarcelo 15 giorni, e avrà il nostro parere. Questa è la prassi alla Light Gallery.
- Ma io sono in viaggio turistico, e non mi trattengo tanto a lungo; magari potrei lasciarlo e voi me lo rispedite?

L'idea non piacque troppo al mio gentile interlocutore, che preferì rilanciare:

- Ma lei quando riparte?
- Giovedì
​- Allora facciamo così: torni mercoledì e farò in modo che sia tutto fatto.

E fu la rovina dei miei ultimi giorni di vacanza americana, vissuti da quel momento nell'ansia del responso. Oggi, nel 2020, è molto diverso: chiunque può contattare rapidamente chiunque, e sottoporre on-line il proprio lavoro è un gioco da ragazzi. Ma a quei tempi, se volevi sapere cosa pensavano di te i curatori di una galleria di New York, la procedura normale era quella di prendere l'aereo, un taxi, imboccare l'ascensore, e conferire di persona. E quell'insieme, il viaggio, la metropoli, la Fifth, i sontuosi portoni, l'algida accoglienza, non poteva non instillare una crescente tensione nell'allora giovane fotografo italiano.

Il tutto aveva avuto inizio un anno prima, dal soggiorno nel mio paese di alcuni studenti del Rhode Island School of Design, che, in un progetto di scambio culturale, vedeva il primo dei nove mesi che avrebbero trascorso in Italia destinato a un processo di prima integrazione; i ragazzi venivano smistati a varie aree della provincia italiana, ospiti di famiglie che avevano manifestato la propria disponibilità, in genere per la presenza in casa di coetanei con i quali potevano interagire. 
Ovviamente, in una piccola comunità quale la nostra, il gruppetto di "americani" creò un certo fermento, e io e altri giovani non facemmo fatica a stringere relazioni di amicizia, alcune delle quali durano tuttora, a distanza di trentasette anni.
Terminato il mese iniziale, gli studenti del RISD si trasferirono tutti a Roma, per il corso di studi vero e proprio; ma neanche quell' allontanamento avrebbe interrotto i contatti, e non mancarono visite in un senso e nell'altro.

Quando si avvicinò l'estate dell'anno successivo, gli americani tornarono a casa, e ci lasciammo con la promessa di rivederci, stavolta negli Stati Uniti.
Fu questa la ragione principale per cui io, Leonardo, e Francesco, decidemmo di dividere le ferie del settembre 1984 tra il New England e la Grande Mela.

La prima settimana la passammo facendo base a Providence; visitammo l'istituto, partecipammo a qualche party, e sostanzialmente condividemmo la vita dei nostri amici. Poi la visita a Boston, la panne del treno con motore diesel che ci inchiodò per ore in mezzo al nulla, gli aquiloni al vento di Cape Cod, e, come in ogni viaggio, tanti altri ricordi che dicono molto a chi li ha vissuti, e poco a chi legge o ascolta. Poi di nuovo un congedo, e rotta verso New York.

Ed eccoci tornati al punto di partenza, con me che mi ritrovo a visitare il Metropolitan, il MOMA, il Withney, l'Empire, la Trump Tower (allora nuova di zecca), e le altre tappe d'obbligo, il tutto con un solo chiodo fisso nel cervello: quale sarebbe stato il responso di mercoledì?

E il giorno fatidico arrivò. Al desk, lo stesso signore della prima volta. Mi feci riconoscere, e si illuminò in un sorriso inaspettato:

-Oh si! Barbara S. mi ha chiesto di farla attendere, le vuole parlare. 

Attesi, e Barbara arrivò. Seduto alla scrivania, dal lato opposto alla giovane signora bionda, ebbi la sensazione che le sedie, al 724 della Fifth Avenue, non poggiassero su un pavimento, ma su soffici nuvole.

Parlò qualche minuto, senza pause, e al mio acerbo inglese venne il fiatone per starle dietro. 
Elogiò l'originalità del mio lavoro (avevo portato i miei esercizi di fotografia "informale" del tempo), e, dopo un lungo giro di complimenti, si offerse, lasciandomi stupito, di acquistare una selezione di stampe. Ne scelse 20, che le avrei spedito appena rientrato, e per le quali mi compilò seduta stante un assegno, che di fatto mi risarciva del viaggio che stava per concludersi.

Ancora mi emoziono al ricordo. Certamente, quella fu una delle ore più esaltanti della mia vita. Purtroppo, o per fortuna, non diedi molto seguito al filone "artistico" della mia attività, sia per il clima ben diverso che si respirava (e si respira tutt'oggi), in Italia su questo tema, sia soprattutto perché l'Arte è una missione che va vissuta con dedizione totale e a tempo pieno, e mal si concilia con gli impegni quotidiani del mestiere, cui invece ho consacrato, facendo anche di necessità virtù, i decenni che seguirono.

Ho ancora con me il book che portai negli Stati Uniti. E' un po' logoro, come il suo autore, ma ogni tanto mi capita di scioglierne i lacci, e mostrarlo a qualcuno. Oramai lo vedo come fosse l'opera di un estraneo, un giovane uomo che non ha molto in comune con il Sante di oggi, ma che in qualche modo suscita in quest'ultimo ammirazione e anche un po' di invidia.

E non gli dispiacerebbe affatto rincontrarlo.
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Memorie di un fotografo #5 - Il castello

1/20/2020

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- Io mi accontento di 3, ma pagando l'INVIM a parte possiamo sovrafatturare fino a 5 miliardi. Per te, il 3%.
- Ah, OK...
- Ora ti mando per fax tutte le planimetrie. Il parco sono 13.000 MQ, il castello, 3000 calpestabili. Tieni conto che abbiamo già i collaudi per uso pubblico, possono farci una casa di riposo, un residence, una discoteca! E poi c'è il casolare del custode, ristrutturato da poco... 450 MQ, è del '700.
- D'accordo, Paolo (useremo questo nome di fantasia), aspetto il fax.

Oramai era tardi per dirgli che doveva esserci un malinteso, e poi ero troppo curioso di vedere dove saremmo arrivati. Era la prima volta, e sarebbe rimasta l'unica, in cui qualcuno mi affidava il compito di vendere un castello, con tanto di frode fiscale annessa.

Avevo conosciuto il conte Paolo in una bella giornata d'autunno. La cronaca di un viaggiatore d'altri tempi avrebbe detto del castello che si fondeva con mirabile armonia con la tavolozza del paesaggio circostante. Ma l'idillio si infrangeva appena varcata la soglia, per l'incombente desolazione delle grandi stanze vuote, costellate di impronte di mobilia e quadrerie che denunciavano una recente spoliazione.

- Fino a tre mesi fa, qua era pieno di arredi e suppellettili, ma ho messo tutto all'asta, e ho tirato su un miliardo e mezzo!

Annuii fingendomi ammirato, ma per me che dovevo fotografare l'edificio per pubblicarlo, un castello spoglio non era il più attraente dei soggetti.

- Si, perché io sono antiquario, commercio in questa roba, ora le insegno una cosa: vede queste sedie? non sono antiche, sono copie; ora le porto dal restauratore, e ci faccio mettere i chiodi di legno, come si chiamano... -cercava il termine avvitando un dito nell'aria- i cavicchi! ...e così diventano antiche.
E... ne avrete per molto qua? perché per pranzo ho prenotato per tutti al ristorante giù in paese.

La giornata si dipanò fluidamente, la istrionica ospitalità del conte si rivelò impeccabile, e ci congedammo con il rituale scambio di contatti.
Io e Paolo eravamo, nel lontano 1992, due pionieri della telefonia mobile, e, come i fatti ebbero a suggerire, fu forse quello della memorizzazione del numero, il momento di un fatidico errore.

Le telefonate iniziarono da lì a pochi giorni.

- Ciao Sante, sono Paolo. Come forse ti ho detto, ho intenzione di vendere il castello che ben conosci. Ho anche una certa premura, pensi di avere tra le tue conoscenze qualcuno che abbia voglia di fare un affare?

Ebbi la prontezza di dissimulare la sorpresa.

- Ma, ecco, forse si, dovrei pensarci...
- Ecco, pensaci, fammi sapere, il 3% per te, naturalmente.

E, da allora, una serie molto fitta di contatti. Ad ogni refrain si aggiungevano dettagli via via più spinosi; mi spiegò come fosse facile per banche, società ed assicurazioni procurarsi fondi neri con questo genere di transazioni, ad ogni giro abbassava il prezzo, fino ad accontentarsi di un miliardo e sette, più una quota di partecipazione alla eventuale attività che vi si fosse insediata. Purché il tutto si chiudesse rapidamente, molto rapidamente...

La mia carriera di agente immobiliare, specializzato in dimore storiche, finì ingloriosamente sul nascere, ma l'onnisciente google mi informa che in realtà il castello non dové attendere a lungo il nuovo proprietario.
E la conclusione della vendita fu certamente la ragione per la quale i nostri contatti si interruppero.
Ma, dopo una lunga pausa, quando non ci pensavo più, quel nome familiare tornò a lampeggiare sul display del mio cellulare.

- Ciao Sante, sono Paolo -esordì come se ci fossimo lasciati 5 minuti prima-, ti chiamo per chiederti se sei disponibile a candidarti con noi alle comunali di P. (città del nord Italia).

(oramai ero diventato bravo a dissimulare le sorprese)
​
- Ah, grazie per aver pensato a me, e... con che partito, eventualmente?
- Con la cosa lì, come si chiama... la Democrazia Cristiana!
- No, aspetta, la Democrazia Cristiana non esiste più.
- Si, cavolo, hai ragione, come si chiama adesso, l'UDC!
- Ah, OK; guarda, sono davvero onorato, ma capisci che per me, da Perugia, venire in consiglio comunale a P. non sarebbe tanto comodo...

- ...ma, aspetta... come Perugia???
- Eh, si, io sono di Perugia.
- Perugia, eh, ah! ecco... ok... (pausa) beh, grazie comunque, ci sentiamo presto!

Ma il conte Paolo non fu buon profeta, perché quella sarebbe stata l'ultima volta, ahimè, in cui le nostre strade si incrociarono.
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Memorie di un fotografo #4 - Appuntamenti

1/13/2020

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Ph. Sante Castignani

-Il parroco non può essere presente all'appuntamento per ovvi motivi...

Eccone un altro, avevo malignato. L'incubo della "buca" ha accompagnato, e continua a farlo, il mio lavoro, e credo quello di tutti noi. Fare molta strada, e non trovare all'incontro il cliente, il curatore, il responsabile con cui si erano presi accordi.

Eravamo arrivati, io e Paola, in perfetto orario, nel paesino delle Marche. Il nostro "tour" si dipanava sulle tracce delle raffigurazioni pittoriche di Sant'Albertino da Montone, e nel caso specifico lo avremmo trovato in un polittico custodito nella chiesa. Paola, storica dell'arte, stava preparando un convegno sull'argomento, e come spesso ci capitava all'epoca, ci eravamo piacevolmente trovati a collaborare. Quel giorno però ci guardavamo sconsolati, non c'era nessuno ad attenderci.

Era ancora fresco un episodio per me tristemente memorabile, uno scontro frontale (dal quale ovviamente riportai la peggio) con una potente signorotta che, dopo avermi fatto attendere due ore, chiamata dal custode, gli urlava (tanto forte che udivo la sua voce a metri di distanza dal telefono) di intimarmi di non muovermi, di attenderla assolutamente, che lei era per strada e stava arrivando. Ma purtroppo avevo visto che il custode aveva fatto il numero di casa, e la palese menzogna non fece che accrescere la mia rabbia. Ignorai le implorazioni del gentilissimo signore, che avrebbe voluto evitare in ogni modo il ciclone che si sarebbe abbattuto anche su di lui per non avermi saputo trattenere, e posi bruscamente fine ad un rapporto che doveva condurre al catalogo (pubblico) del museo di famiglia (ovviamente privato), e che dunque costringeva allo stesso tavolo persone che non si erano scelte come compagni di viaggio. Ne avevo già sopportati molti di quelli che a me parevano capricci isterici (ma che oggi sospetto piuttosto trattarsi di prove di forza tra le parti), e ne avevo già dissipate molte, delle mie malpagate giornate; ero saturo, e quel giorno ritenni di presentare il conto (che poi, come sempre accade, toccò a me saldare, nel caso di specie con la perdita di incarichi successivi sui quali fu posto il pesante veto di Madame).

O le giornate buttate (assieme a centinaia di euro di materiale sensibile), cercando di interpretare le assurde richieste della agenzia che stava dirigendo un corposo lavoro di still life, e che mi portò, giunti al punto di stallo, a staccare il giaccone dall'appendiabiti e piantare tutto e tutti augurando con perfetto aplomb un "buon proseguimento" agli attoniti presenti. Quella volta in verità la spuntammo io e il collega con cui dividevo il lavoro: l'azienda capì da che parte stava la ragione (mai successo, prima o dopo, di avere la meglio contro una agenzia), e scaricò i ciarlatani, scoprendo anche che l'unica competenza che potevano vantare in curriculum era nel campo del packaging di farmaci e relativi bugiardini, mentre si stavano spacciando per esperti di componenti di design. La spuntammo, ma nessuno ci pagò la prima fase del lavoro rivelatasi inutile.

O​ a Pompei, di cui ho già raccontato, dove non si contavano i giorni persi per l'impossibilità di accedere a un sito, di avere un permesso, di trovare una chiave; e ci dicevano, scuotendo la testa: "Ma perché non ve ne andate al mare?".
O il viaggio a vuoto a Roma, per fotografare un Guido Reni custodito in un caveau di Via del Corso, che fu impossibile raggiungere quel giorno a causa di una manifestazione che, chi coordinava il tutto, non aveva tenuto in debito conto.
​O le tante volte in cui un evento programmato sfumava per cause meteorologiche, e del tuo spostamento, del tuo tempo, della data impegnata da tempo, non rimaneva nulla, a parte i vestiti bagnati.

O..., o..., o... .

Insomma, dopo anni di esperienza, sarei stato scocciato ma neanche troppo sorpreso se il parroco ci avesse dato buca. 
Ci inoltrammo nella navata. Il feretro in fondo lo avevamo sbirciato subito arrivando, e ci aveva anche allarmato: "Se c'è un funerale dovremo aspettare la fine prima di piazzare le lampade". La chiesa era ampia e scarna, molto rimaneggiata, e il tutto mi parve accrescere la tristezza di quella bara solitaria.
Si stava facendo tardi, decidemmo di provare in canonica. Suonammo il campanello, e alla voce che, con un po' di ritardo, ci rispose, facemmo presente che avevamo appuntamento con il parroco.

-Il parroco non può essere presente all'appuntamento per ovvi motivi...

la voce al citofono era sorpresa, ma cortese.

Un fulmine ci attraversò il cervello, ma non volevamo ancora crederci.
Farfugliammo qualcosa, la voce colse il nostro disagio e la nostra buona fede, e si presentò come appartenente al nipote del parroco.

-Scendo.

Ci presentammo

-Ci scusi, non immaginavamo, torneremo un altro giorno.


-Ma no -scosse la testa- oramai siete qua, e del resto sono certo di onorare la memoria di mio zio mettendovi in condizione di fare il vostro lavoro, lui amava l'arte e la sua chiesa.

Eseguimmo il rapido servizio nella più surreale delle condizioni emotive, come non è difficile immaginare. Paola aveva parlato con il poveretto solo due giorni prima, eravamo tristi per l'accaduto, ma anche felici di poter comunque concludere la nostra missione.

​Riposa in pace, sconosciuto parroco; la tua (giustificatissima) assenza al nostro appuntamento rimarrà, puoi giurarci, scolpita per sempre nella nostra memoria.
​E non ci hai nemmeno fatto perdere la giornata.

​Sante Castignani


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Memorie di un fotografo - 1,5 KW

1/6/2020

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1991.

Conclusa con successo l'avventura di Pompei, i miei rapporti con la Fratelli Alinari si erano consolidati, e da un paio di anni aveva avuto inizio quello che probabilmente sarebbe rimasto il più bell'incarico della mia vita: la campagna annuale della SEAT con cui si illustravano le copertine delle guide telefoniche di tutta Italia. Oggi è difficile rendersi conto dell'importanza che potesse rivestire qualche decennio fa l'elenco telefonico, ma chi ha buona memoria ricorderà che nei bar più frequentati il centinaio di volumi che raccoglievano, divisi per provincia, gli abbonati italiani, costituivano una parte significativa dell'arredamento. Quando l 'Alinari stipulò la convenzione con la SEAT, erano già diversi anni che le copertine delle guide, inizialmente semplicemente costellate dai loghi degli inserzionisti, erano diventate il più bel catalogo, oggi si direbbe diffuso, del patrimonio artistico del nostro paese. L'idea era nata da un dirigente della SEAT, un gentleman d'altri tempi che ricorderò sempre con grande piacere, che ebbe l'intuizione di barattare una piccola parte del gettito pubblicitario in cambio di un enorme guadagno in termini comunicativi dello strumento: proponendo ogni anno un gioiello (tendenzialmente poco conosciuto) del patrimonio artistico locale nella prima e quarta di copertina di ciascuna guida, si creò una enorme affezione del pubblico verso un altrimenti sterile e asettico volume. I comuni e le diocesi facevano a gara per assicurarsi la presenza su quelle pagine, per veder rappresentata, in quella che sarebbe stata l'immagine più vista dell'anno, la cattedrale, il museo, il parco archeologico, il castello, la villa, tutti beni che avrebbero ricevuto un enorme ritorno pubblicitario.

In quella complessa operazione nulla era lasciato al caso; una redazione nella sede di Torino si occupava di individuare i siti che sarebbero stati oggetto della campagna, filtrando le richieste o selezionandoli con propria autonomia, e pianificare di conseguenza ogni servizio. Alla fine dell'estate veniva indetta una riunione dove noi tre fotografi incaricati, più il dirigente dell'Alinari, incontravamo i responsabili della SEAT, e, come usavamo scherzare, ci spartivamo l'Italia. A ciascuno di noi toccavano una trentina di copertine, che rappresentavano all'incirca altrettante giornate di lavoro. In genere il servizio fotografico impegnava la sola mattinata o poco più, lasciandomi a seguire molte ore libere per visitare la città in cui mi trovavo. Fu grazie a questo incarico che posso dire di avere una buona conoscenza, avendo avuto per anni l'opportunità di batterla a tappeto, dell'Italia e delle sue meraviglie. Dal punto di vista tecnico il lavoro rappresentava la classica mixed bag: c'erano soggetti poco impegnativi, mentre altri si rivelavano vere e proprie sfide, spesso non previste, e per di più lontani da casa, da affrontare pertanto con quello che si aveva dietro. Quella che sto per raccontare è proprio una di quelle situazioni che mi colsero alla sprovvista, e che mi obbligarono a lavorare di fantasia per risolvere un problema per nulla banale.

1991, dicevo. Ero in Veneto, e come spesso accadeva, avevo raggiunto in serata la città dove avrei operato il giorno successivo, Vicenza nel caso specifico. Il soggetto di turno era il Criptoportico romano, ovvero un portico sotterraneo che costituisce attualmente il piano interrato di un grosso palazzo. La situazione si presentò come segue: una vista di insieme presupponeva di piazzarsi in un angolo con un grandangolare molto spinto (alla fine scattai con una Linhof 6x9 cm equipaggiata di uno Schneider Super Angulon da 47 mm di focale), e inquadrare due pareti che si sviluppavano ad angolo retto per una trentina di metri ciascuna; la larghezza del corridoio era di circa 3 metri, per cui ogni fonte di illuminazione  avrebbe generato un forte spot con caduta repentina verso il buio a poca distanza. E così infatti si presentavano tutte le foto esistenti all'epoca: tutto immerso nel buio, salvo alcune chiazze bianche, bruciate, in corrispondenza delle lampade o flash che erano stati utilizzati. L'unica illuminazione presente erano delle lampadine di bassa potenza, di colore rossastro, piazzate all'interno delle nicchie che scandivano regolarmente le pareti, del tutto inutili ai nostri scopi, rappresentando anzi un problema in più, creando un insidioso controluce. Con me avevo illuminatori a sufficienza, e pensai che piazzandone uno ogni 6 o 7 metri avrei potuto ottenere una discreta uniformità di illuminazione, con, diciamo, otto di essi. Andai a cercare il quadro elettrico per vedere se potevamo disporre (ma ne sarei rimasto assai sorpreso) di 8 kilowatt: una volta aperto il piccolo sportello del contatore, non sapevo se mettermi a ridere o piangere: totale della energia elettrica a disposizione: 1,5 KW. Come illuminare 60 metri lineari con 1,5 KW? Oggi mi verrebbero in mente molte soluzioni: merging in postproduzione di una serie di scatti, ciascuno illuminato per una piccola porzione; illuminatori a led, sia a rete che a batteria, eccetera. Ma bisogna tornare al 1991, e ai mezzi che c'erano allora, pellicola in primis, che non consentiva né errori, né possibilità di verifica di quel che era stato fatto fino al momento dello sviluppo. Fu con questo problema da risolvere che andai a mangiare qualcosa prima di ritirarmi in albergo, fiducioso che la notte mi avrebbe portato consiglio.

​E così fu. Come succede spesso al cervello quando deve sbrogliare intricate matasse, le sinapsi tennero un consiglio e deliberarono come segue.

Piazzai la fotocamera sul treppiede, e, al buio assoluto, aprii l'otturatore sulla Posa T (otturatore sempre aperto fino a che non si aziona nuovamente lo scatto); avvalendomi di una sola lampada da 1000 Watt tenuta in mano, e di una generosa prolunga, iniziai a percorrere, rasente al muro esterno, i due tratti interessati; giunto in prossimità dell'apparecchio spegnevo, lo oltrepassavo, e completavo l'altra metà. L'operazione è concettualmente semplice, ma la sua difficoltà consiste nel corretto calcolo dell'esposizione, che con la pellicola invertibile che si usava per questi lavori, deve essere perfetta. Il punto è che oltre alla potenza della lampada (facilmente misurabile con l'esposimetro), è importante tenere in considerazione anche la velocità con cui la si fa muovere. In sintesi, ho passato mezza mattinata a percorrere i due corridoi, cercando ogni volta di variare la velocità del mio spostamento. Contavo un tot di secondi ad ogni nicchia, e ogni volta li aumentavo o riducevo. 
Avrò macinato cinque o sei rulli in questo modo, prima di passare a fotografare i dettagli, che mi parvero una passeggiata.
L'addetto della SIP che mi accompagnava pensò senz'altro che fossi impazzito, ma quando arrivarono i risultati, ha continuato a segnalarmi per anni le numerose richieste che riceveva per poter utilizzare quelle immagini, che crearono effettivamente un certo scalpore per il fatto di mostrare finalmente nel suo splendore uno dei monumenti più peculiari di quella bella città.

Ed ecco il risultato, tratto dal volume "Immagini dagli elenchi telefonici" 1991, tradizionale strenna della SEAT in un'epoca in cui, oltre che al proprio bilancio, le grandi Imprese pensavano a promuovere Cultura.

​Sante Castignani
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